“Si deve investire, non basta più la solita minestra”

LUGANO - Lugano, in fondo, nella trasformazione economica e sociale che sta vivendo, è come un ristorante che deve studiare un nuovo menù per adattarsi ai tempi. Le specialità della casa non bastano più: servono idee e sapori nuovi. Di ambedue le cose s'intende Serge Santese, imprenditore con trascorsi da cuoco che ha scelto, a quarantacinque anni, di affinare le sue competenze frequentando l'Executive Master in Business Administration dell'USI. Già gerente del Lido di Lugano e del Casablanca, Santese di recente è stato nominato direttore del Ristorante Parco Ciani. La sua intervista è la settima della serie «Idee per la Città» dopo quelle a Silvia Passardi (25 marzo), Laura Villa Bottani (25 febbraio), Roberto Mazzantini (17 febbraio), Giorgio Zürcher (10 febbraio), Andrea Bellomo (5 febbraio) e Walter Marzini (28 gennaio).
---
Signor Santese, lei ha viaggiato spesso raccogliendo spunti utili per il suo lavoro. Ha qualche idea anche per migliorare Lugano?«Abbiamo un paesaggio, un clima e una città magnifici, ma non per questo chi lavora nel settore della ristorazione, dello svago o del turismo può sedersi: bisogna migliorare il servizio che forniamo ai cittadini e ai visitatori, puntare a una qualità ineccepibile che sia all'altezza di altre località rinomate nel mondo. Abbiamo la concorrenza spietata di tutte le città che si trovano a un'ora di volo da Lugano. Gli imprenditori dei settori che ho menzionato e che hanno vissuto in tempi di vacche grasse, quindi, dovrebbero impiegare parte dei loro guadagni in progetti o iniziative che facciano evolvere, crescere le attività che gestiscono e, di riflesso, anche Lugano e il Ticino».
Magari discutendone seduti allo stesso tavolo?«Proprio così, anche se è sempre molto difficile coordinare diverse linee di pensiero. Ciononostante, di recente ho notato tra i miei colleghi un orientamento positivo alla collaborazione: si comincia a capire l'importanza di raggiungere un successo comune, di costruire qualcosa per il bene della città. Se qualcuno apre un nuovo locale, prima che come un concorrente, viene visto come promotore di una nuova attività che farà circolare più gente, a vantaggio di tutti. Soprattutto dei clienti, che avranno più scelta (di qualità, location e prezzi) per pranzare, cenare, prendere un aperitivo, divertirsi in genere».
In una recente intervista al nostro giornale, però, il presidente di Gastro Lugano Daniele Meni aveva parlato di una sovrabbondanza di ristoranti che sta portando a diverse chiusure. Siete forse in troppi, considerando che Lugano non è più quella di prima?«La contrazione di cui parla Meni esiste, è innegabile. Indipendentemente da come va il mercato, però, le persone che hanno le competenze e offrono un servizio di qualità troveranno sempre lavoro e avranno successo, a maggior ragione se continuerà a esserci chi, come talvolta avviene, s'inventa ristoratore».
Diciamo che la crisi sta facendo selezione tra chi offre una buona qualità (e la sa vendere) e chi no.«Esatto. E, in tal senso, il problema che riscontro a Lugano è la standardizzazione dell'offerta: in troppi propongono le stesse pietanze. Ciò avviene per diverse ragioni. Da un lato abbiamo dei grandi gruppi che, acquistando un locale dopo l'altro per avere prezzi migliori dai fornitori, che magari vengono pure coinvolti nell'azionariato, hanno quasi assunto il monopolio del settore. Dall'altro, si tratta di coraggio: il piccolo imprenditore ha paura di sbagliare uscendo da un contesto culinario rodato e perciò, magari, non mette in atto le sue buone idee. Assistiamo quindi a un impoverimento dal punto di vista gastronomico e imprenditoriale».
A Lugano un cittadino su tre è straniero, ma questa multiculturalità sembra non riflettersi molto nell'offerta gastronomica. Come mai?«Credo sia così perché gli stranieri che arrivano in Svizzera tendono ad adattarsi ai lati positivi del nostro stile di vita: tranquillità, sicurezza e stabilità per ogni lavoratore dipendente. E tuffarsi in un'iniziativa come aprire un ristorante etnico può sembrare un rischio "inutile". Agli stranieri di media ricchezza, poi, vanno aggiunti quelli che non hanno mezzi per avviare un progetto del genere e quelli con elevata disponibilità di capitali che, il più delle volte, si trasferiscono in Ticino non per fare impresa, ma solo perché ne apprezzano i vantaggi climatici, sociali e fiscali».
Tornando all'offerta luganese da migliorare, si parla spesso dell'importanza di essere più accoglienti con chi arriva da fuori (ma non solo). Facciamo un passo in più: premesso che la cultura del sorriso non può essere trapiantata, come si può coltivarla?«Molto dipende da chi dirige il personale: se il capo non sorride, è davvero difficile che lo facciano i suoi subordinati. Però, la vera difficoltà sta a monte: gli svizzeri tendono ad evitare le professioni alberghiere. Chi è nato qui, ad esempio, non si pone l'obiettivo di fare il somellier, una professione che ritengo bellissima e che, a fronte dei sacrifici richiesti, può regalare tantissime soddisfazioni, insegnare a interagire con la gente, dare una marcia in più e valorizzare il territorio. Bisognerebbe rivalutare queste professioni e tutti gli apprendistati relativi alla ristorazione e all'ospitalità».
Non di rado chi gestisce un locale è corrucciato per un ragione precisa: l'affitto da pagare a fine mese. E gli affitti in città sembrano esser ancora calibrati sulla Lugano del benessere.«In realtà i proprietari si stanno rendendo conto che i gestori fanno più fatica di prima. Al terzo affittuario che lascerà lo stesso spazio, cominceranno ad abbassare le pigioni. Gli affitti, comunque, e qui mi scontrerò con diversi colleghi, non sono una parte importante del bilancio di un ristorante. Bisogna essere bravi a creare una grande cifra d'affari che ammortizzi i costi fissi. Se si sbaglia a fare questi calcoli, si sbaglia tutto».
Cosa può fare la politica locale per creare condizioni quadro migliori?«La volontà di migliorare i servizi a favore dei locali c'è, ed è un ottimo punto di partenza. Ovviamente, il fatto che in certi momenti dell'anno venga data l'opportunità di montare bancarelle e vendere alcolici in piazza fa storcere il naso a vari colleghi, ma queste situazioni sono necessarie: servono a creare una certa atmosfera e fanno parte della cultura regionale. Sta a chi gestisce i locali organizzarsi in modo diverso in quei periodi».
A proposito di atmosfera: da anni si dice che Lugano è morta la sera. È un eterno problema irrisolto o in una certa misura è giusto così, nel senso che le città, come le persone, hanno una propria identità difficile da cambiare?«Credo che sia un'attitudine culturale. Inoltre, come detto, non abbiamo i numeri dalla nostra parte e gli imprenditori dei settori come il nostro non fanno abbastanza per creare un'offerta speciale, qualcosa che faccia restare la gente fuori casa e ne faccia arrivare altra da fuori. Servono più idee e flessibilità».
Può dipendere dal fatto che molti di loro hanno messo «fieno in cascina» negli anni buoni e ora non hanno bisogno di fare di più?
«Penso e spero di no. Credo sia una questione di approccio alla professione».
Il suo settore è confrontato con un'altra novità: gli scontrini sgraditi pubblicati sul web. È più una vittoria dei clienti o un pericoloso boomerang?«È una sensibilizzazione globale e va nel verso giusto. Non si può vendere un'acqua minerale a 10 franchi: queste cose fanno imbestialire anche me. I gestori devono imparare a convivere con i social network e a sfruttarli a loro favore».
Come si riflette sulla ristorazione la crisi della pIazza finanziaria?«Se guardiamo alla domanda relativa ai pranzi, rispetto agli anni buoni, oggi i professionisti cercano prezzi più bassi e si affidano alla ristorazione di massa che, del resto, è migliorata molto. Inoltre, stanno meno attenti ai valori nutritivi di quello che mangiano e scelgono meno prodotti e servizi "premium". Alla sera, invece, se prima uscivano due volte alla settimana, adesso si limitano a una. E se quella singola volta non mangiano bene, invece che lamentarsi abbassano ancora la frequenza. Ormai però funziona così in tutto il mondo: la crisi è stata globale».
Un'altra gatta da pelare per la ristorazione ticinese è la concorrenza con i locali italiani della zona di confine. Come contrastarla?«L'Italia è l'unico paese al mondo in cui la qualità del cibo si associa a un prezzo pressoché irrisorio: noi, però, abbiamo la fortuna di essere in Ticino e dobbiamo ragionare in modo opposto. Dobbiamo pensare a come attirare clienti italiani della fascia di confine, soprattutto quelli che si inseriscono in un target medio-alto. In che modo? Offrendo qualcosa che in Italia non c'è: privacy, esclusività. Il potenziale in termini di marketing esiste, dobbiamo sfruttarlo!».
---
Negli ultimi anni avete diminuito i vostri pranzi e cene nei ristoranti di Lugano? È questa la domanda del nostro sondaggio su www.cdt.ch. Votate e fateci sapere come la pensate scrivendo a [email protected] (massimo 1.000 caratteri spazi inclusi). Le vostre impressioni verranno pubblicate sul sito.