L'intervista

«Sono pronto a restare alla guida: un po' ammorbidito, ma vallerano»

Fiorenzo Dadò, alla guida del Centro dal 2017, ha deciso di mettersi a disposizione (unitamente ai suoi vice Marco Passalia e Giorgio Fonio) per un altro mandato – Lo abbiamo incontrato
© Ti-Press/Samuel Golay
Gianni Righinetti
23.08.2024 06:00

Fiorenzo Dadò, alla guida del Centro dal 2017, ha deciso di mettersi a disposizione (unitamente ai suo vice Marco Passalia e Giorgio Fonio) per un altro mandato. Lo abbiamo incontrato: i momenti di difficoltà, quelli gioiosi, il suo modo di essere e il rapporto con gli altri partiti.

Lunedì davanti al Comitato cantonale del Centro comunicherà la sua disponibilità per altri quattro anni alla guida del partito. Dire «se volete ci sono ancora» ha richiesto una profonda riflessione o è stato un processo naturale?
«Il nostro statuto prevede che ogni quattro anni dopo le Comunali ci si interroghi sulla presidenza. Se non viene chiesto il rinnovo si procede con la ricerca di una nuova guida. Da questo punto di vista, sì, è un processo naturale e democratico al nostro interno».

Ci stava pensando da molto?
«Non faccio programmi a lungo termine, tutto può cambiare molto in fretta e ragiono per obiettivi. Quelli che mi ero prefissato, andare bene alle Cantonali e alla Federali, sono stati raggiunti, ora guardo avanti ai prossimi».

Lei è ormai un presidente di lungo corso, in sella dal 2017 e se riceverà il via libera rimarrà fino al 2028. Cosa ha ancora da dare dopo tanti anni?
«Io prima di assumere un qualsiasi ruolo ci penso bene. Poi se mi prendo la responsabilità vado fino in fondo, con impegno. È il mio carattere. Ci sono ovviamente alti e bassi, la politica è fatta anche di grosse delusioni, momenti in cui ti senti solo a dover trainare un po’ tutto. Ma ci si riprende. È come andare in montagna, dopo le difficoltà di un passaggio, si continua il cammino verso la cima. È un po’ quello che faccio anche nella mia vita. Sento di avere molta energia e di poter dare ancora molto. In questi anni la nostra impronta politica è stata chiara, ora bisognerebbe valutare anche qualche riforma per snellire il partito. Ma per far questo bisognerà discutere con le sezioni e con i giovani».

Momenti di scoraggiamento ve ne sono stati eccome e certamente non sono terminati

Ma si è mai detto, «basta, mollo»?
«Momenti di scoraggiamento ve ne sono stati eccome e certamente non sono terminati. Però non mi sono mai seriamente posto il problema, anche se qualche riflessione se fosse giunto il momento di dire basta alla politica c’è stata. In tutti i casi è solo questione di tempo. Arriverà quel momento anche per me, come è giunto per altri».

Oltre alla sua disponibilità c’è anche quella dei suoi due vice, Marco Passalia e Giorgio Fonio?
«Sì. Senza di loro farei fatica a pensare di continuare. La squadra funziona, c’è affiatamento e sono due persone diverse da me, che non guasta. Siamo complementari, indipendenti, ognuno con competenze e sensibilità proprie».

Quale era lo stato di salute del partito quando lo ha preso in mano e qual è oggi?
«Il nostro partito si trovava in profonda crisi, da anni era in perdita di velocità e senza invertire il trend elettorale e dell’immagine, ci sarebbe da chiedersi dove saremmo andati a finire. Ho trovato un partito mal messo, che soffriva da anni, abbiamo lavorato duro e siamo stati in grado di aggiustare molte cose, grazie anche all’aiuto di molte persone e delle sezioni. Ma chi pensa che i buoni risultati elettorali ci permetteranno di stare tranquilli, si sbaglia. La politica è saliscendi, chi si ferma e non s’impegna giorno per giorno avrà risvegli amari: gutta cavat lapidem. I cittadini non votano a scatola chiusa, vogliono fatti».

Qual è stato il momento migliore della sua presidenza?
«Gli incontri con la gente, i rapporti umani, il confronto, sono gli aspetti più belli di questo lavoro. Se intende politicamente, allora ne indico due. La vittoria popolare sull’imposta di circolazione e l’elezione al Consiglio degli Stati di Fabio Regazzi. Il tema del caro imposta è stato il primo atto politico della prima presidenza, mentre il successo di Fabio è stato costruito pazientemente e l’idea era nata due anni prima sulle montagne della Valle Bavona».

Ma scusi, Regazzi si era detto dubbioso e indeciso fino all’ultimo. Quindi era tutta strategia?
«Non direi così. È stato un lavoro di convincimento, di fiducia reciproca e teso a trovare gli appoggi giusti per quel genere di elezione con il sistema maggioritario. È stata la storia di un successo di squadra, costruito giorno dopo giorno».

Io non riesco a fingere, nella migliore delle ipotesi resto in silenzio. Non posso fare ciò che non penso

E quello più complicato?
«La non rielezione di Paolo Beltraminelli in Governo con il partito che ha rischiato la spaccatura. In quei mesi è stato complicato tentare di appianare i dissidi e non uscire con le ossa rotte ricompattando il partito che aveva scelto Raffaele De Rosa. Certamente ha contribuito l’atteggiamento molto positivo di Paolo, comprensibilmente amareggiato ma che si è dimostrato un vero signore. D’altronde oggi è ancora dei nostri a Lugano e lo ringrazio».

Non c’è presidente in grado di fare l’unanimità all’interno di un partito. Ma anche con i suoi detrattori è stato in grado di riallacciare i rapporti. È il suo spirito vallerano, duro, reattivo, ma alla fine razionale?
«Io non riesco a fingere. È la mia natura vallerana. Nella migliore delle ipotesi sto in silenzio, ma non posso dire o fare qualcosa che non penso, a cui non credo. Con il tempo un po’ si cambia, ci si ammorbidisce, ma il mio modo di essere non è stato stravolto. Nel 2017 eravamo in cinque a correre per la presidenza ed è normale che c’era chi non vedeva di buon occhio una mia conduzione. Che conta è il partito, la squadra, e una volta eletto ho iniziato ascoltando tutti e alla fine i rapporti sono diventati amichevoli e collaborativi. È stato un processo arricchente per tutti e che ha portato al successo il Centro».

Oggi si ripresenta con una certa «tranquillità», ma dobbiamo ricordare che nel 2017 non è stato tutto semplice.
«Esatto, c’erano Filippo Lombardi, Nadia Ghisolfi, Franco Ghezzi e Giovanni Berardi. Soprattutto per la presenza di un calibro come Lombardi che era ancora consigliere agli Stati e ai massimi livelli nazionali non era un’elezione semplice e il partito ha dimostrato coraggio. Non era stato preparato un red carpet per nessuno».

Ci pensa ancora che vi chiamavate PPD, oppure questo è del tutto dimenticato?
«A livello di dirigenza del partito sono stato forse tra gli ultimi a convincermi che si poteva andare veramente in questa direzione. Temevo fosse solo un lifting di facciata, un cambio di vestito senza sostanza mentre io volevo un cambio sostanziale, anche di contenuti e di modo di porsi. Così è stato e sono soddisfatto».

Da presidente ha avuto una rigida coerenza: non si è mai candidato al Consiglio di Stato o per un posto nella Berna federale. Ha qualche rimpianto? Promette che resterà fedele a questa linea di condotta?
«Non ho rimpianti. Ho messo sempre davanti a ogni potenziale ambizione l’interesse del partito. Un presidente deve innazitutto condurre, affrontare i problemi, proporre soluzioni, preparare e promuovere le nuove leve. Solo dopo aver dimostrato qualcosa ha la legittimità per pensare ad altro. Così ho fatto e credo lo possano confermare anche altri. In futuro non è previsto, anche se viste la mia militanza ed esperienza ma età sufficientemente giovane (53 anni) non escludo nulla. Dipenderà da tante cose, anche dalle esigenze del partito».

Ho messo sempre davanti ad ogni potenziale ambizione personale l’interesse del partito

Nella sua visione che futuro attende i partiti del centro politico, il suo Centro e il PLR di Alessandro Speziali?
«Sgombriamo il terreno da ogni dubbio. Io e Alessandro abbiamo un buon rapporto e tra noi non ci sono problemi. I nostri partiti sono però diversi, l’anima di fondo non è comune, va riconosciuto. Non si può pensare a una potenziale unione facendo uno più uno uguale a due. Ci sono ragioni storiche, ma ancor di più il modo di concepire la politica, di approccio che ci distingue. Una collaborazione l’ho sempre auspicata, ma deve essere seria e trasparente. Ma non basta una cena o dire facciamo un patto generico per ottenere un risultato. Occorre costruire giorno per giorno, mettendo in piedi un lavoro di approfondimento interno, indicando su quali temi si fonda la collaborazione».

Il contesto politico vi frena?
«Non bisogna farsi illusioni, i due partiti del centro non avrebbero oggi la forza elettorale di dare una svolta concreta al Paese, che però ne avrebbe bisogno come il pane. Per fare questo occorre una maggioranza, che non abbiamo né in Governo, né in Parlamento. Nessuno ce l’ha. Se si vuole dare una svolta al Ticino occorre per prima cosa rafforzare la propria base elettorale e cambiare anche il modo di fare politica».

La Lega sta vivendo un periodo difficile. Premesso che non le chiedo di guardare in casa d’altri, da questa situazione a trarne giovamento sarà solo l’UDC o potrebbe essere un’occasione per accrescere aderenti e consensi anche per il suo Centro?
«Con diversi colleghi leghisti si collaborava abbastanza bene ma la Lega degli ultimi anni ha collezionato una serie di elementi negativi e in antitesi con gli intendimenti delle origini che sembrano avere un solo obiettivo: distruggere ciò che ha fatto Giuliano Bignasca. Pare incredibile tanto autolesionismo e in questo contesto capisco la sua domanda. Direi però che c’è un 50% di cittadini disillusi che non votano e un 20% che non ha più un partito. Non si può pensare di costruire il successo sulle magagne o sulle scorie altrui, ma occorre convincere la gente, attraverso un lavoro serio, coerente, proposte accattivanti e soprattutto indicando soluzioni ai problemi».

Come valuta la situazione della sinistra, vede possibili collaborazioni tra voi e loro, o li reputa eccessivamente massimalisti?
«Il mio partito ha un’attenzione forte verso i bisogni della popolazione e gli aspetti sociali, non nel senso dell’assistenzialismo, bensì di aiuto e sussidarietà, anche nei confronti dell’economia. A sinistra si stenta a ragionare in questi termini, ma una buona collaborazione, come del resto anche a destra, c’è».

Che estate è stata per lei quella ormai agli sgoccioli?
«Doveva essere un’estate programmata per fare diverse belle cose anche in montagna, ma è stata stravolta. Dopo essere stato con un caro amico a fine aprile ad attraversare la Sicilia percorrendo centinaia di km a piedi, a fine giugno è accaduto l’inimmaginabile che ha devastato la mia Vallemaggia. Ci siamo risvegliati nel pieno della notte come in un incubo, e il mattino eravamo sotto shock. Ma ci siamo immediatamente uniti e dati da fare, ho messo nel cassetto i programmi e ho trascorso le mie giornate a adoperarmi per il mio territorio e per la mia gente. La crisi è solo all’inizio e per rialzarci abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti».