«Sono pronto a restare alla guida: un po' ammorbidito, ma vallerano»
Fiorenzo Dadò, alla guida del Centro dal 2017, ha deciso di mettersi a disposizione (unitamente ai suo vice Marco Passalia e Giorgio Fonio) per un altro mandato. Lo abbiamo incontrato: i momenti di difficoltà, quelli gioiosi, il suo modo di essere e il rapporto con gli altri partiti.
Lunedì davanti al Comitato cantonale del
Centro comunicherà la sua disponibilità per altri quattro anni alla guida del
partito. Dire «se volete ci sono ancora» ha richiesto una profonda riflessione
o è stato un processo naturale?
«Il nostro statuto
prevede che ogni quattro anni dopo le Comunali ci si interroghi sulla
presidenza. Se non viene chiesto il rinnovo si procede con la ricerca di una
nuova guida. Da questo punto di vista, sì, è un processo naturale e democratico
al nostro interno».
Ci stava pensando da
molto?
«Non faccio programmi a
lungo termine, tutto può cambiare molto in fretta e ragiono per obiettivi.
Quelli che mi ero prefissato, andare bene alle Cantonali e alla Federali, sono
stati raggiunti, ora guardo avanti ai prossimi».
Lei è ormai un
presidente di lungo corso, in sella dal 2017 e se riceverà il via libera
rimarrà fino al 2028. Cosa ha ancora da dare dopo tanti anni?
«Io prima di assumere un
qualsiasi ruolo ci penso bene. Poi se mi prendo la responsabilità vado fino in
fondo, con impegno. È il mio carattere. Ci sono ovviamente alti e bassi, la
politica è fatta anche di grosse delusioni, momenti in cui ti senti solo a
dover trainare un po’ tutto. Ma ci si riprende. È come andare in montagna, dopo
le difficoltà di un passaggio, si continua il cammino verso la cima. È un po’
quello che faccio anche nella mia vita. Sento di avere molta energia e di poter
dare ancora molto. In questi anni la nostra impronta politica è stata chiara,
ora bisognerebbe valutare anche qualche riforma per snellire il partito. Ma per
far questo bisognerà discutere con le sezioni e con i giovani».
Ma si è mai detto,
«basta, mollo»?
«Momenti di
scoraggiamento ve ne sono stati eccome e certamente non sono terminati. Però
non mi sono mai seriamente posto il problema, anche se qualche riflessione se
fosse giunto il momento di dire basta alla politica c’è stata. In tutti i casi
è solo questione di tempo. Arriverà quel momento anche per me, come è giunto
per altri».
Oltre alla sua
disponibilità c’è anche quella dei suoi due vice, Marco Passalia e Giorgio
Fonio?
«Sì. Senza di loro farei
fatica a pensare di continuare. La squadra funziona, c’è affiatamento e sono
due persone diverse da me, che non guasta. Siamo complementari, indipendenti,
ognuno con competenze e sensibilità proprie».
Quale era lo stato di
salute del partito quando lo ha preso in mano e qual è oggi?
«Il nostro partito si
trovava in profonda crisi, da anni era in perdita di velocità e senza invertire
il trend elettorale e dell’immagine, ci sarebbe da chiedersi dove saremmo
andati a finire. Ho trovato un partito mal messo, che soffriva da anni, abbiamo
lavorato duro e siamo stati in grado di aggiustare molte cose, grazie anche
all’aiuto di molte persone e delle sezioni. Ma chi pensa che i buoni risultati
elettorali ci permetteranno di stare tranquilli, si sbaglia. La politica è
saliscendi, chi si ferma e non s’impegna giorno per giorno avrà risvegli amari:
gutta cavat lapidem. I cittadini non votano a scatola chiusa, vogliono fatti».
Qual è stato il momento
migliore della sua presidenza?
«Gli incontri con la
gente, i rapporti umani, il confronto, sono gli aspetti più belli di questo
lavoro. Se intende politicamente, allora ne indico due. La vittoria popolare
sull’imposta di circolazione e l’elezione al Consiglio degli Stati di Fabio
Regazzi. Il tema del caro imposta è stato il primo atto politico della prima
presidenza, mentre il successo di Fabio è stato costruito pazientemente e
l’idea era nata due anni prima sulle montagne della Valle Bavona».
Ma scusi, Regazzi si era
detto dubbioso e indeciso fino all’ultimo. Quindi era tutta strategia?
«Non direi così. È stato
un lavoro di convincimento, di fiducia reciproca e teso a trovare gli appoggi
giusti per quel genere di elezione con il sistema maggioritario. È stata la
storia di un successo di squadra, costruito giorno dopo giorno».
E quello più complicato?
«La non rielezione di
Paolo Beltraminelli in Governo con il partito che ha rischiato la spaccatura.
In quei mesi è stato complicato tentare di appianare i dissidi e non uscire con
le ossa rotte ricompattando il partito che aveva scelto Raffaele De Rosa. Certamente
ha contribuito l’atteggiamento molto positivo di Paolo, comprensibilmente
amareggiato ma che si è dimostrato un vero signore. D’altronde oggi è ancora
dei nostri a Lugano e lo ringrazio».
Non c’è presidente in
grado di fare l’unanimità all’interno di un partito. Ma anche con i suoi
detrattori è stato in grado di riallacciare i rapporti. È il suo spirito
vallerano, duro, reattivo, ma alla fine razionale?
«Io non riesco a
fingere. È la mia natura vallerana. Nella migliore delle ipotesi sto in
silenzio, ma non posso dire o fare qualcosa che non penso, a cui non credo. Con
il tempo un po’ si cambia, ci si ammorbidisce, ma il mio modo di essere non è
stato stravolto. Nel 2017 eravamo in cinque a correre per la presidenza ed è
normale che c’era chi non vedeva di buon occhio una mia conduzione. Che conta è
il partito, la squadra, e una volta eletto ho iniziato ascoltando tutti e alla
fine i rapporti sono diventati amichevoli e collaborativi. È stato un processo
arricchente per tutti e che ha portato al successo il Centro».
Oggi si ripresenta con
una certa «tranquillità», ma dobbiamo ricordare che nel 2017 non è stato tutto
semplice.
«Esatto, c’erano Filippo
Lombardi, Nadia Ghisolfi, Franco Ghezzi e Giovanni Berardi. Soprattutto per la
presenza di un calibro come Lombardi che era ancora consigliere agli Stati e ai
massimi livelli nazionali non era un’elezione semplice e il partito ha
dimostrato coraggio. Non era stato preparato un red carpet per nessuno».
Ci pensa ancora che vi
chiamavate PPD, oppure questo è del tutto dimenticato?
«A livello di dirigenza
del partito sono stato forse tra gli ultimi a convincermi che si poteva andare
veramente in questa direzione. Temevo fosse solo un lifting di facciata, un
cambio di vestito senza sostanza mentre io volevo un cambio sostanziale, anche
di contenuti e di modo di porsi. Così è stato e sono soddisfatto».
Da presidente ha avuto
una rigida coerenza: non si è mai candidato al Consiglio di Stato o per un
posto nella Berna federale. Ha qualche rimpianto? Promette che resterà fedele a
questa linea di condotta?
«Non ho rimpianti. Ho
messo sempre davanti
a ogni potenziale ambizione l’interesse del partito. Un presidente deve
innazitutto condurre, affrontare i problemi, proporre soluzioni, preparare e
promuovere le nuove leve. Solo dopo aver dimostrato qualcosa ha la legittimità
per pensare ad altro. Così ho fatto e credo lo possano confermare anche altri.
In futuro non è previsto, anche se viste la mia militanza ed esperienza ma età
sufficientemente giovane (53 anni) non escludo nulla. Dipenderà da tante cose,
anche dalle esigenze del partito».
Nella sua visione che
futuro attende i partiti del centro politico, il suo Centro e il PLR di
Alessandro Speziali?
«Sgombriamo il terreno da ogni dubbio.
Io e Alessandro abbiamo un buon rapporto e tra noi non ci sono problemi. I
nostri partiti sono però diversi, l’anima di fondo non è comune, va
riconosciuto. Non si può pensare a una potenziale unione facendo uno più uno
uguale a due. Ci sono ragioni storiche, ma ancor di più il modo di concepire la
politica, di approccio che ci distingue. Una collaborazione l’ho sempre
auspicata, ma deve essere seria e trasparente. Ma non basta una cena o dire
facciamo un patto generico per ottenere un risultato. Occorre costruire giorno
per giorno, mettendo in piedi un lavoro di approfondimento interno, indicando
su quali temi si fonda la collaborazione».
Il contesto politico vi
frena?
«Non bisogna farsi
illusioni, i due partiti del centro non avrebbero oggi la forza elettorale di
dare una svolta concreta al Paese, che però ne avrebbe bisogno come il pane.
Per fare questo occorre una maggioranza, che non abbiamo né in Governo, né in
Parlamento. Nessuno ce l’ha. Se si vuole dare una svolta al Ticino occorre per
prima cosa rafforzare la propria base elettorale e cambiare anche il modo di
fare politica».
La Lega sta vivendo un
periodo difficile. Premesso che non le chiedo di guardare in casa d’altri, da
questa situazione a trarne giovamento sarà solo l’UDC o potrebbe essere
un’occasione per accrescere aderenti e consensi anche per il suo Centro?
«Con diversi colleghi
leghisti si collaborava abbastanza bene ma la Lega degli ultimi anni ha
collezionato una serie di elementi negativi e in antitesi con gli intendimenti
delle origini che sembrano avere un solo obiettivo: distruggere ciò che ha
fatto Giuliano Bignasca. Pare incredibile tanto autolesionismo e in questo
contesto capisco la sua domanda. Direi però che c’è un 50% di cittadini
disillusi che non votano e un 20% che non ha più un partito. Non si può pensare
di costruire il successo sulle magagne o sulle scorie altrui, ma occorre
convincere la gente, attraverso un lavoro serio, coerente, proposte
accattivanti e soprattutto indicando soluzioni ai problemi».
Come valuta la
situazione della sinistra, vede possibili collaborazioni tra voi e loro, o li
reputa eccessivamente massimalisti?
«Il mio partito ha
un’attenzione forte verso i bisogni della popolazione e gli aspetti sociali,
non nel senso dell’assistenzialismo, bensì di aiuto e sussidarietà, anche nei
confronti dell’economia. A sinistra si stenta a ragionare in questi termini, ma
una buona collaborazione, come del resto anche a destra, c’è».
Che estate è stata per
lei quella ormai agli sgoccioli?
«Doveva essere un’estate programmata per fare diverse belle cose anche in
montagna, ma è stata stravolta. Dopo essere stato con un caro amico a fine
aprile ad attraversare la Sicilia percorrendo centinaia di km a piedi, a fine
giugno è accaduto l’inimmaginabile che ha devastato la mia Vallemaggia. Ci
siamo risvegliati nel pieno della notte come in un incubo, e il mattino eravamo
sotto shock. Ma ci siamo immediatamente uniti e dati da fare, ho messo nel
cassetto i programmi e ho trascorso le mie giornate a adoperarmi per il mio
territorio e per la mia gente. La crisi è solo all’inizio e per rialzarci
abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti».