«Sono vivo per caso, lassù sono rinato»
Ha una stretta di mano ferma e decisa Luciano Cattori. Quando si congeda, ti guarda dritto negli occhi e «forza!» dice. Sì, lui la forza sembra sapere bene cosa sia, considerando a cosa è sopravvissuto. «Lassù – racconta lui stesso – sono nato una seconda volta. A 72 anni ho ricominciato a vivere e da allora ogni giorno è un regalo. Bellissimo e da far fruttificare. Dopo un’esperienza così reimpari come stare al mondo, ti guardi bene dal lamentarti sempre e apprezzi tutte le cose. Anche le più piccole. Perché sono vivo? Razionalmente potrei dare mille spiegazioni, ma – in realtà – credo che sia stato solo un caso». Un guizzo di fortuna dentro una tragica fatalità, verrebbe da dire. Fatalità, appunto. Così, di recente, ha statuito il Ministero pubblico vallesano, che ha annunciato l’intenzione di voler archiviare definitivamente il dossier, non avendo l’inchiesta ravvisato alcuna responsabilità. Il caso verrà dunque stralciato dai ruoli, ma non dalla memoria. Non da quella di Cattori e dei suoi due compagni di escursione, unici superstiti di un gruppo di dieci. Non da quella dell’opinione pubblica, profondamente colpita dal dramma della montagna che, nella notte fra il 28 e il 29 aprile del 2018, fece sette morti. Tre dei quali legati al Ticino: la guida comasca Guido Castiglioni e la moglie di origini bulgare Kalina Damyanova, da anni residenti a Bruzzella, in val di Muggio e che a Chiasso cogestivano l’agenzia MGL Moutain Guide. E Andrea Grigioni, cittadino italiano di Lurate Caccivio, frontaliere da tempo impiegato alla casa per anziani Alto Vedeggio di Mezzovico-Vira.
È con estrema lucidità che Cattori racconta quei giorni, iniziati in modo spensierato. Racconta partendo dalla sua passione per la montagna. «Sono sempre stato amante dello sport e ne ho praticati parecchi: dallo sci – discesa, fondo e alpinismo - alla vela, dal windsurf alla corsa. Originario di Sonogno, in Verzasca, dove ho trascorso molte vacanze estive, con mio padre ho cominciato presto a salire verso le vette. Poi, appena ho potuto, ho iniziato a farlo anche da solo». Un amore che lo segue per tutta la vita, mentre si forma come tecnico di costruzioni metalliche, a 38 anni si sposa con Flavia e poi con lei ha due figli, che oggi hanno 34 e 30 anni. «Il maschio ha ereditato lo stesso interesse e, col tempo, ha cominciato a seguirmi nelle mie escursioni». Che non si limitano al Ticino e alla Svizzera, ma, con gli anni, lo portano a viaggiare molto. Soprattutto dopo la pensione: va in Argentina, in Iran, nel nord America, in Russia, in Kirghizistan. «Viaggi – racconta ancora il nostro interlocutore – che ho spesso intrapreso assieme a Castiglioni, la cui agenzia proponeva la trasferta, la scalata su qualche montagna e anche una visita al paese. Lui – davvero un’ottima guida, che sapeva il fatto suo – lo conoscevo da una decina d’anni». Quasi inevitabile, dunque, che Cattori desse seguito all’invito alla traversata Chamonix a Zermatt. «Una proposta che avrebbe chiuso in bellezza una stagione invernale, seguendo un tragitto dai panorami mozzafiato, fra ghiacciai e cime meravigliose, ad una quota variabile fra i 2.880 e i 4.000 metri. Tecnicamente è classificato di media difficoltà. La comitiva (dieci alpinisti, tutti i italiani salvo Cattori, fra cui la guida e sua moglie) parte il 25 aprile, “una giornata con tempo magnifico». Tutto fila liscio fino alla sera di sabato 27. Dopo la “tappa regina” e dieci ore di marcia, il gruppo approda alla capanna des Dix. Qui Castiglioni fa il punto della situazione. Inizialmente la comitiva avrebbe dovuto continuare verso Zermatt e dormire alla capanna Nacamuli, in valle d’Aosta. Le previsioni meteo parlano però di una perturbazione in arrivo nel pomeriggio del giorno dopo. Viene dunque approntato un piano B: salire alla Pigne d’Arolla e scendere con gli sci al paese, dove si sarebbe giunti verso mezzogiorno, sfuggendo così al maltempo. Il giorno successivo si sarebbe ripresa la via prevista. Ma domenica 28 aprile tutto cambia.
L’epilogo
Domenica 28 aprile la temperatura è scesa, ma è una bella giornata. La comitiva parte verso le 6, mettendo in atto il piano B, che dovrebbe permetterle di evitare la tormenta. «Ma verso le 9.30 – racconta Cattori – siamo stati travolti da una tempesta di neve e vento. Impossibile proseguire con gli sci. Così ci siamo messi i ramponi e abbiamo cercato di andare avanti». Da quel momento gli eventi precipitano. La visibilità si fa sempre più scarsa, le raffiche sono talmente violente che si finisce spesso a terra. Ci vogliono 5 ore per coprire un tratto solitamente percorribile in mezz’ora.La stanchezza comincia a farsi sentire, ma non ci si può fermare né mangiare o bere, per il rischio di congelarsi togliendo i guanti. Cattori ripercorre le ore successive: la discesa verso la capanna Les Vignettes, che sanno vicina, ma che non raggiungeranno mai, il buio che si addensa, alcuni compagni stremati che non riescono più a proseguire e la decisione, sofferta, di non dividere il gruppo e di sistemarsi per la notte alla mercé degli elementi. «Da quel momento, dopo il valzer fra disperazione e speranza, l’unico pensiero è stato quello di cercare di sopravvivere». Mentre sente gli altri lamentarsi e alcuni spegnersi, Cattori cerca di non addormentarsi e di muoversi in continuazione, pur centellinando le energie. Arriva la prima luce e con lei la consapevolezza che la tormenta è cessata. I tre superstiti si alzano in piedi e Cattori ricade: prima ha delle allucinazioni, poi sviene. Nel frattempo due alpinisti partiti da Les Vignettes sentono le urla e scattano i soccorsi. Il resto è storia nota: il ricovero d’urgenza all’Insespital di Berna, il corpo ormai a 26 gradi di temperatura, una mano poi salvata in extremis alla Carità di Locarno. E il dramma dei compagni persi. Eppure Cattori, uomo dalla tempra eccezionale, è riuscito a rialzarsi e ancora cammina. Anche sui sentieri di montagna. Perché, nonostante tutto, non riesce a togliersela dal cuore.