«Una storia di ieri che può offrire un insegnamento sull’accoglienza»
È un capitolo inedito del Ticino durante la Seconda guerra mondiale quello narrato dallo scrittore ticinese Mattia Bertoldi nel suo nuovo romanzo, Il coraggio di Lilly (edizioni Tre60). È la storia di una donna svizzero-tedesca, Lilly Volkart, che ad Ascona trasforma la sua casa, prima del conflitto adibita a colonia estiva per bambini desiderosi di respirare la salubre aria del nostro cantone, in un centro di accoglienza per bambini in fuga dalle persecuzioni nazifasciste e dagli orrori della guerra in generale. Il tutto in uno scenario quale quello dell’Ascona (e del Ticino) dell’epoca in bilico tra la volontà di prestare un aiuto a chi cercava di sfuggire agli orrori del nazifascismo e la paura che tutto ciò potesse danneggiare quel briciolo di sicurezza che, nonostante tutto, caratterizzava la nostra regione.
Mattia Bertoldi, come è entrato in contatto con il personaggio Lilly Volkart e con la sua storia?
«Professionalmente mi occupo, tra le altre cose, di emigrazione ticinese, il che significa trattare di chi ha lasciato il nostro cantone ma anche di chi, provenendo dall’estero o da altre regioni del Paese, vi si è stabilito lasciando un segno tangibile. In quest’ultimo ambito un prezioso riferimento è una pubblicazione dedicata al cimitero di Ascona: una sorta di guida - su modello di quella del Père-Lachaise di Parigi - indicante i personaggi illustri che vi riposano. Sfogliandolo ho trovato nomi di attori, scrittori e personaggi che già conoscevo, nonché quello di questa Lilly Volkart di cui ignoravo l’esistenza e che veniva elogiata per le sue qualità pedagogiche e per il lavoro a favore dell’infanzia, in tal senso svolto nella sua casa asconese. Questo è stato il primo approccio con il personaggio che ho cercato di approfondire attraverso qualche informazione biografica in tedesco. Un paio di anni fa, dopo una lettura de Il treno dei bambini di Viola Ardone, che parla di un aspetto abbastanza inedito della Seconda guerra mondiale, ossia di quando al termine del conflitto molti bambini del sud Italia venivano mandati per tre mesi al nord per fargli vivere un periodo lontano dalla miseria che attanagliava le loro terre colpite più violentemente dalla guerra, ho ricollegato ciò a Lilly Volkart. Che inizialmente, negli anni Trenta, ospitava bambini per una villeggiatura estiva, prima di trasformare la sua abitazione asconese in un centro di accoglienza. E ho pensato che poteva essere una bella storia da raccontare, in grado - tra l’altro - di svelare un aspetto inedito del nostro territorio durante la Seconda guerra mondiale».
Un territorio, quello asconese, che è stato di accoglienza ma non sempre…
«Quando ho cominciato ad addentrarmi nell’Ascona di quel periodo attraverso documenti originali dell’epoca e pubblicazioni su Ascona di autori ticinesi ma non solo, è parso subito evidente che si trattava di un borgo a due facce: da un lato l’Ascona povero e anche un po’ ignorante paesino di pescatori, dall’altro l’Ascona del Monte Verità, delle comunità ebraiche e di quelle a sfondo culturale (per esempio quella presente a Comologno), degli incontri tra artisti e intellettuali. Due anime completamente diverse che condividevano lo stesso territorio ma vivendolo in modo contrapposto e addirittura separato. Lilly Volkart, ad esempio, viveva la sua realtà con i suoi bambini, ma per tanti abitanti del paese era poco più che una sconosciuta, visto che parlava tedesco. Erano proprio due villaggi ben distinti…».
Anche culturalmente, direi: chiusa, razzista e filonazifascista la sua componente italofona, più tollerante, aperta e progressista quella germanofona…
«Il fatto che gli abitanti del Monte Verità fossero definiti “balabiott” dagli “indigeni” fa già capire le due anime del borgo: da un lato coloro che rappresentavano quasi un’avanguardia nella ricerca dello spirito e del corpo e dall’altro le persone del paese che giudicavano costoro strani e fuori di testa. Due visioni che ho cercato di mettere a confronto nel libro anche parlando del Collegio Papio. Il quale in quel periodo fece una scelta storica, ossia accogliere anche bambini di altre religioni, suscitando però dei timori (come risulta da testi sulla storia del Papio che ho consultato) da parte delle famiglie di alcuni allievi. Non si tratta tuttavia di un qualcosa di strano: anche oggi nella realtà di tutti i giorni c’è chi è per l’apertura, chi non lo è. E nel libro, senza la minima intenzione di affermare chi era nel giusto e chi no, ho cercato appunto di rappresentare quella che era la realtà di quel periodo che era poi la stessa di altre zone di questa nostra regione di frontiera. Come dimostra il fatto che Liliana Segre fu rifiutata ad Arzo, che le ultime ricerche sui registri di Caprino confermano che solo due terzi delle persone che in quegli anni chiesero asilo furono accolte. Quello di cui si parla nel libro è un periodo caratterizzato da un gioco in cui più che il bianco e il nero è la tinta grigia a prevalere. Un grigio che diventa interessante perché poi ognuno ha la propria opinione e può, a seconda di questa, vedere nell’Ascona di quel periodo un luogo di accoglienza ma anche di frontiera e, di conseguenza, anche di rifiuto, di ostracismo. Una situazione che Lilly Volkart ha vissuto sulla propria pelle: durante la sua “missione” di accoglienza dei bambini in fuga dalla guerra c’è stato infatti chi l’ha aiutata - soprattutto persone che provenivano da fuori -e altri che invece, specie gente del paese, lo ha fatto in misura minore».
Della biografia di Lilly Volkart narrata nel romanzo, quanto è finzione e quanto è frutto di ricerca storica?
«Direi che il 30% è finzione e il 70% realtà. La prima stesura del libro era un racconto di quel periodo visto attraverso gli occhi di Ranieri, questo ragazzino in fuga che arriva da Domodossola e che si ritrova in un microcosmo nuovo, la casa di Lilly, appunto con le sue dinamiche di accoglienza. Su suggerimento della mia casa editrice, ho poi deciso di modificare la storia e raccontarla attraverso il ruolo della Volkart. Però ho dovuto inserire, attraverso una serie di flashback, molti elementi tratti dalla sua biografia, alcuni riportati in maniera accurata, alcuni invece romanzati, per dare più solidità al racconto. È di finzione, ad esempio, l’episodio legato alla sua maternità e al triste destino di sua figlia: una finzione però necessaria per dare una personale risposta alla domanda che spesso le rivolgevano, ovvero “perché non hai mai avuto dei figli tuoi?”. Domanda a cui Lilly rispondeva sempre “ne ho avuti 4.000 di figli, ossia tutti i bambini che ho ospitato”, ma alla quale, da romanziere, ho provato a dare una risposta differente».
Il romanzo è punteggiato da tanti personaggi importanti: Hermann Hesse che assieme alla sua prima moglie gioca un ruolo fondamentale all’interno del percorso umano di Lilly Volkart, il mago Ranieri Bustelli, il poeta Rainer Maria Rilke, l’attrice Brigitte Helm. Quanto c’è di vero nelle loro relazioni con Lilly Volkart e con l’Ascona di quel periodo?
«A parte il mago Ranieri Bustelli (inserito per ragioni narrative ma che durante quegli anni faceva spettacoli privati un po’ ovunque e dunque avrebbe potuto tenerne pure in Ticino) si tratta di personalità che realmente frequentavano Ascona in quel periodo. Come Hermann Hesse, appunto, o come Brigitte Helm, l’attrice protagonista di Metropolis che ha sempre vissuto ad Ascona e che mi sono giocato come una donna di alto livello, intellettuale, che aiuta il ragazzo ospitato da Lilly ad incontrare il suo idolo, il mago Bustelli. Tutto, insomma, è giocato sul ruolo della verosimiglianza, ma dopo aver realmente verificato la presenza di tutti questi personaggi ad Ascona in quegli anni».
Un altro tema forte toccato da Il coraggio di Lilly è la resistenza italiana al nazifascismo…
«È un tema centrale, visto che si parla di persone che espatriavano clandestinamente e che giocoforza necessitavano di aiuti per fuggire. Per affrontarlo, la prima cosa che ho fatto è stato verificare se, nelle regioni a ridosso del Ticino, ci fossero delle persone inserite nell’Ordine dei Giusti, l’elenco di coloro che aiutarono gli ebrei durante la persecuzione nazifascista. Ne ho trovate quattro e si trattava di quattro appartenenti alla Guardia di Finanza italiana. Ho dunque voluto inserire nel romanzo una di queste figure: un componente dell’esercito e quindi agli occhi di tutti un sostenitore del fascismo ma che in realtà sfruttava questo suo ruolo per salvare delle vite, anche a costo di mettere a repentaglio la sua. E infatti una di queste guardie a cui mi sono ispirato aveva, come uno dei protagonisti del romanzo, moglie e figli che aveva cercato di mettere al sicuro per evitare rappresaglie nel caso lo avessero scoperto».
Questo suo romanzo viene pubblicato in un momento particolare, in cui il tema dell’accoglienza e dei profughi è più che mai attuale. Che cosa può insegnarci a tal proposito la vicenda di Lilly Volkart e cosa non abbiamo imparato da ciò che accadde allora?
«Ciò che non abbiamo imparato è cosa significa essere dei profughi. E ritenere che gli stessi debbano per forza avere le pezze ai piedi per potersi meritare la nostra accoglienza. Ci stupiamo infatti quando hanno un’automobile, un cellulare, ma non ci rendiamo conto cosa significa venire da un Paese in guerra, da un Paese in cui ti dicono che in sei ore devi lasciare la tua casa e devi scegliere cosa portarti appresso in una valigia e ciò che devi abbandonare per sempre. Una situazione che fortunatamente noi non abbiamo dovuto vivere come svizzeri e che tendiamo a sottovalutare. Cosa invece può insegnarci l’esempio di Lilly Volkart è il concetto dell’accoglienza tout court, senza pensare troppo a ciò che comporta. Sintomatica per me è la scena che ho inserito nel libro che racconta quando Lilly va alla bottega alimentare con le tessere annonarie di razionamento che però hanno pochi bollini, perché pochi bambini erano registrati. Ma non si perde d’animo e cerca di fare di necessità virtù, provando a far mancare il meno possibile ai bambini».
Bambini che Lilly, tra l’altro, cerca di non privare delle proprie radici, che anzi cerca di valorizzare trasformandole in un momento di unione e non di divisione, per esempio festeggiando assieme il Natale cristiano e l’Hanukkah ebraico…
«Quando ho scoperto che Lilly Volkart faceva ciò, ho deciso che questo momento doveva avere un ruolo centrale nel racconto. Però, a guardare bene, questo suo modo di agire - che noi con i nostri occhi reputiamo un bellissimo momento di integrazione e di uguaglianza - all’epoca non era visto così. C’era infatti gente che diceva che Lilly in tal modo voleva convertire gli ebrei al cristianesimo o i cristiani all’ebraismo. Si tratta di un altro episodio collocabile in quella zona grigia di cui parlavamo in precedenza, che dimostra come ogni cosa, a seconda di come la si guarda, può essere interpretata in modo diverso. C’è chi ci vede del bene e chi invece la giudica negativamente. Ed è un discorso che possiamo tranquillamente applicare anche alla nostra vita quotidiana».
Lilly Volkart, una vita a favore dell’infanzia il personaggio
Nata a Zurigo nel 1897 in una famiglia di «liberi pensatori» (suo padre era insegnante alla Scuola d’Arti e Mestieri, sua madre fiorista), sin da giovanissima Lilly Volkart mostrò una spiccata vocazione nelle attività a contatto con la gioventù: divenne segretaria del primo ospizio per bambini di Zurigo e, dopo un soggiorno linguistico a Parigi, aprì, non ancora maggiorenne (e dunque a nome di suo padre), una pensione studentesca presso il Politecnico zurighese.
Nel 1921 fu assunta da una coppia di medici, Max e Minna Tobler-Christinger, per badare ai loro due figli assieme ai quali l’anno seguente - a seguito a problemi di salute dei ragazzi - si trasferì ad Ascona. Due anni dopo, sempre ad Ascona ma in una casa di proprietà di Maria Hesse-Bernoulli (la prima moglie di Hermann Hesse), Lilly aprì una colonia nella quale, durante l’estate, ospitava figli delle famiglie benestanti. L’impresa ebbe un tale successo da permetterle, nel 1931, di acquisire la proprietà della sua casa in via Collinetta 40.
Nel 1933 Lilly Volkart fu una delle fondatrici dello Schweizer Hilfswerk für Emigrantenkinder (Aiuto svizzero per bambini emigranti) e iniziò ad ospitare nella propria struttura asconese bambini poveri, orfani o abbandonati, creando con loro una sorta di famiglia allargata. Questa missione di accoglienza si intensificò allo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1942. Nella case di Lilly ad Ascona iniziarono ad arrivare, da ogni angolo d’Europa, molti bambini di ogni nazionalità in fuga dalle atrocità del conflitto tra cui nel 1942, su richiesta del Governo elvetico e con il sostegno di Eduard von der Heydt che le offrì una casetta sul Monte Verità, 120 orfani ebrei. In totale si stima che all’incirca 4.000 bambini furono ospiti della donna e dei suoi aiutanti nella casa e negli altri edifici messi a disposizione per la loro opera.
Dopo la fine della guerra iniziò lentamente il rientro in patria dei piccoli rifugiati, tanto che alcuni di essi rimasero ancora molti anni con Lilly ad Ascona. Sebbene tornati a casa, i «bambini» non hanno tuttavia mai dimenticato la loro esperienza asconese, tanto che ogni anno, in occasione del compleanno di Lilly, tornavano a farle visita da ogni angolo del mondo.
Lilly Volkart è scomparsa nel 1988 ad Ascona all’età di 91 anni: le sue spoglie riposano nel locale cimitero tra quelle dei cittadini illustri del borgo verbanese. Per ricordare la figura e l’opera di Lilly Volkart, agli inizi degli anni Novanta è stata istituita a Locarno una fondazione che porta il suo nome e che si occupa di «favorire ragazzi e ragazze, domiciliati in Ticino oppure di origine ticinese, particolarmente dotati in un qualsiasi campo, mediante contributi finanziari come borse di studio, contributi alle spese di formazione».
Scelte coraggiose in un tempo difficile
Ne Il coraggio di Lilly (edizioni Tre 60, 288 pagine, 16,80 €) Mattia Bertoldi narra la storia di Lilly Volkart che ha interamente dedicato la sua vita agli altri. Un racconto ambientato tra il 1943 ad Ascona - quando, tra i bambini che tra molte difficoltà e aiutata da pochi amici accoglie nella sua casa, arrivano i giovanissimi Ranieri e Dora con alle spalle storie drammatiche che la donna cercherà di far superare all’interno di una quotidianità il più normale possibile - e, ritroso nel tempo, il 1917 a Zurigo, dove la Volkart matura le sue scelte esistenziali. Sullo sfondo un Ticino, terra di frontiera, diviso su come comportarsi durante un conflitto che, pur non toccandolo direttamente, incombe cupamente sul suo destino.