Il caso

Unica soluzione, la libertà

Una donna a cui era stato comminato, in seguito a un reato commesso in stato di confusione mentale, un trattamento stazionario in una struttura chiusa è stata scarcerata perché non è stato possibile collocarla e curarla

La sua vicenda giudiziaria si era chiusa con il giudice Mauro Ermani che le aveva comminato un trattamento stazionario in una struttura chiusa d’Oltregottardo, rivolgendo «un vigoroso invito» all’Autorità d’esecuzione affinché quest’ultima organizzasse quanto prima il trasferimento della donna protagonista di questa vicenda, così che potesse avere accesso alle cure di cui aveva bisogno. Struttura chiusa necessaria perché vi era un alto rischio di recidiva. Da allora è passato un anno e mezzo. La donna nella struttura d’Oltregottardo non ci è mai arrivata e, anzi, nelle scorse settimane è stata scarcerata. Proprio perché non è stato possibile trasferirla.

Un problema che si ripresenta

Si tratta di un caso limite all’interno di un problema oggettivo: è complicato collocare le persone affette da gravi turbe psichiche che compiono reati in Ticino, perché in Ticino non vi sono strutture apposite. Un problema che si ripresenterà con tutta probabilità già lunedì, dato che si prospetta una condanna a una pena sospesa in favore di un trattamento stazionario in struttura chiusa della donna che lo scorso 24 novembre attaccò con un coltello due persone alla Manor di Lugano. La differenza fra i due casi è che all’accoltellatrice quasi certamente verrà comminata anche una pena da scontare - che entra in vigore qualora la misura alternativa non dovesse funzionare - mentre la donna rimessa in libertà qualche settimana fa era stata giudicata non imputabile e di pena da scontare non ne aveva.

Non è poi un caso se parliamo di donne. Perché in teoria - dice il Codice penale - Il trattamento può svolgersi anche in un penitenziario, sempre che sia assicurato da personale specializzato. Il problema è che, non esistendo oggi un carcere femminile, le donne condannate devono scontare la pena allaFarera, in condizioni simili se non identiche a quelle della carcerazione di sicurezza. Condizioni che non rendono possibile la terapia necessaria.

Il famoso passo in più

«Dopo due anni di detenzione, la mia assistita si trovava ancora in attesa di essere collocata presso una struttura adeguata dove si potessero attuare le misure terapeutiche necessarie a garantirle una presa a carico multidisciplinare - dice l’avvocata Alessia Angelinetta, che ha seguito la donna nella procedura di scarcerazione. – Dopo aver più volte sollecitato il suo trasferimento e richiesto una nuova rivalutazione peritale, ho preannunciato un’istanza di soppressione della misura. Il trasferimento veniva sempre rimandato per problemi di gestione della struttura che avrebbe dovuto accoglierla, ma questa situazione non poteva più essere tollerata». Secondo il Codice penale, infatti, se non esiste un’istituzione adeguata la misura deve essere soppressa, e secondo il Tribunale federale questo articolo si applica anche nel caso non vi sia posto in una struttura idonea. «La mia assistita poteva trovarsi libera da un giorno all’altro senza alcuna misura di accompagnamento», spiega Angelinetta. Ma fortunatamente non è andata così.

Innanzitutto, precisa l’avvocata, «in carcere la donna ha avuto la possibilità di fare un percorso introspettivo e di riflessione personale su se stessa, grazie anche all’aiuto dei professionisti sanitari della struttura carceraria, e oggi è sicuramente una persona diversa, fiduciosa nel futuro e nelle sue capacità». Ma anche perché tutte le parti coinvolte hanno fatto il famoso passo in più per garantirle un percorso riabilitativo anche fuori dal carcere: «È stato un lavoro d’équipe con l’Ufficio del giudice dei provvedimenti coercitivi, gli assistenti sociali, il patronato, la curatrice, l’Autorità regionale di protezione e la sottoscritta. Ci siamo mossi tutti di concerto perché era importante non lasciarla “sola” dopo la scarcerazione senza un percorso definito». Un risultato tutt’altro che scontato: «Per lei ci siamo riusciti, attivandoci tutti per il benessere della singola persona e, a sua volta, della comunità, ma non so per quante altre persone sarà fattibile», conclude Angelinetta.

«Situazione problematica»

Che fare, dunque? Una domanda che abbiamo girato proprio al GPC, benché anch’esso abbia in parte le mani legate. Nel caso della ragazza scarcerata, ci ha per esempio riferito Angelinetta, il mancato collocamento «non è dipeso dal sistema giudiziario ticinese, che tutto quello che poteva fare, l’ha fatto. Purtroppo, anche il GPC si scontra con la mancanza di strutture e le lungaggini burocratiche».

«In Svizzera - spiega la giudice Ursula Züblin, presidente del GPC - il numero di strutture per l’esecuzione di queste misure terapeutiche è limitato e con pochi posti a disposizione, ciò che comporta lunghe liste d’attesa (ad esempio per il centro specializzato Curabilis vi sono unicamente cinque posti per le donne indipendentemente dal Cantone di provenienza) ed inoltre non vi è alcuna certezza circa il momento della disponibilità di un posto». Inoltre «può capitare che le strutture rifiutino il collocamento», ad esempio per ragioni di lingua o di poca esperienza in questa o quella patologia.

Züblin continua parlando di «difficoltà oggettive» in generale nel trovare strutture di collocamento adeguate: «In taluni casi, purtroppo, ci si trova inevitabilmente confrontati con l’assenza di alternative percorribili, quindi con una situazione di impasse che comporta l’impossibilità di fatto di eseguire la misura, compromettendone lo scopo, ciò con evidenti ripercussioni negative per la persona interessata e il suo stato psicofisico».

Conclude la presidente: «La situazione nel nostro Cantone, dunque, è molto problematica, tenuto anche conto di un incremento, negli ultimi anni, dei casi psichiatrici per i quali è stata ordinata una misura, e potrà essere risolta, perlomeno a mio giudizio, unicamente con la creazione di nuove strutture all’uopo, anche in Ticino, presso le quali vi sia la possibilità di collocare sia uomini che donne».

Un reparto di psichiatria forense a Mendrisio?

La mancanza di strutture ticinesi in grado di ospitare persone sottoposte a misure terapeutiche è un tema caldo anche per la politica cantonale. Oltre al caso di cui vi abbiamo appena riferito, vi è anche il problema legato alle persone che al termine della loro pena detentiva restano in prigione per l’esecuzione di una misura terapeutica. E la Commissione giustizia e diritti del Gran Consiglio sta lavorando a una possibile soluzione: «Siamo preoccupati - afferma il presidente, Giorgio Galusero (PLR) -. La legge consente di tenere in carcere queste persone in caso di mancanza di strutture adeguate, ma non è una soluzione soddisfacente. Vengono sì seguite da un’équipe in carcere ma non regolarmente. Se si vuole ottenerne il reinserimento nella società, vanno seguite giornalmente». Di qui, dunque, l’idea: creare un reparto di psichiatria forense all’interno dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC). Ossia un reparto con medici e infermieri specializzati e, beninteso, sorvegliato. Di recente, la Giustizia e diritti ha sentito in audizione il responsabile dei servizi psicosociali dell’OSC, il dottor Rafael Traber, con cui si è discusso di questa opzione. E ora? La politica ha i suoi tempi ma la concordanza in Commissione potrebbe portare a novità a medio termine: «Abbiamo incontrato il giudice Mauro Ermani e l’allora presidente dell’Ufficio del giudice dei provvedimenti coercitivi, Maurizio Albisetti, nonché la direttrice della Divisione della Giustizia, Frida Andreotti - spiega ancora Galusero -. C’è la volontà politica di trovare una soluzione a questo problema, e una proposta potrebbe anche arrivare entro la fine dell’anno». Nico Nonella

Mancano anche strutture intermedie?

Turbe psichiche, dipendenze

Le difficoltà di collocamento di persone con problemi psichici o di dipendenze non si esauriscono in ambito giudiziario. Gli attori presenti sul territorio (i gruppi di auto-aiuto Vask per familiari e amici di persone di persone affette da disturbo psichico ad esempio, o fra Martino Dotta) lamentano da tempo una carenza di strutture cosiddette intermedie, vale a dire tra ’ospedalizzazione e l’indipendenza, ovvero il rientro a casa o in un appartamento messo a disposizione dall’assicurazione invalidità. Qualcosa che cioè possa garantire un accompagnamento e una struttura a chi presenta fragilità, al di fuori delle crisi più acute.

Un precedente

Tornando nel penale, di recente per un uomo che aveva aggredito la ex una perizia raccomandava un trattamento stazionario per curare le turbe psichiche di cui soffre e la dipendenza da alcol. Ma Ingrado si era detto non competente per la presa a carico e l’imputato ha rifiutato un trasferimento in Svizzera francese perché non conosce la lingua. Risultato: la «classica» pena espiativa e nulla più, non potendo fare altro.