«Un’Ucraina senza oligarchi e con più difese: la Russia resterà una minaccia»
Sulle rive del Ceresio sono state gettate le basi per la rinascita di Kiev. La Ukraine Recovery Conference 2022 si è conclusa con la Dichiarazione di Lugano, un documento in 7 punti che indica la via per ricostruire il Paese invaso da Putin. Analizziamo i contenuti della conferenza del 4 e del 5 luglio scorsi con il ricercatore indipendente Luca Lovisolo, studioso di Europa dell’Est e autore del libro Il progetto della Russia su di noi (Archomai, 2020).
Innanzitutto, che tipo di conferenza è stata la URC 2022 di Lugano?
«Questo genere di conferenze non è nuovo. Nel senso che è una modalità di intervento che si è imposta, ormai da diversi anni. Ha un precedente simile, anche se per una situazione molto diversa, che è la conferenza sulla Somalia del 2012 tenutasi a Londra. Si tratta di prendere un Paese che ha subito qualche grosso scossone e non lasciarlo solo nella ricostruzione, in quanto potrebbe avvenire in modo non regolato: le autorità statali potrebbero non essere nelle condizioni di controllare adeguatamente il flusso di aiuti o potrebbero esserci interventi di terzi non disinteressati. Una serie di attori internazionali si siede attorno ad un tavolo e definisce un programma di azioni per la ricostruzione e il rilancio di quel Paese, mettendo nero su bianco i passi da compiere, stabilendo dei cronoprogrammi e un sistema di controlli che permetta di verificare ciò che succede, prima di decidere nuove misure, correggendo i progetti qualora ve ne fosse bisogno. È un intervento strutturale, quello che viene elaborato in conferenze di questo tipo. Sicuramente esiste il rischio che sembri una parata o un insieme di bei discorsi. Nell’organizzazione degli eventi internazionali è un rischio inevitabile, ma, nei fatti, se si leggono i documenti che stanno alla base dell’incontro di Lugano, si vede che c’è un progetto concreto. Nel caso della Somalia, abbiamo visto che, tra mille difficoltà, questo Paese ha ripreso ad esistere come Stato, grazie agli interventi promossi dalla conferenza di Londra, poi seguita da altri interventi di controllo. La Somalia ha ancora grosse difficoltà, però pochi mesi fa si sono tenute delle elezioni presidenziali in un Paese che, fino all’inizio degli anni 2000, di fatto era stato cancellato dalle carte geografiche. Non bisogna sottovalutare questi modelli di intervento: dimostrano di funzionare, anche se possono avere dei limiti. Questa idea di “programmazione e controllo costante” si è imposta anche negli interventi dell’Unione europea dopo la pandemia, un esempio è quello che in Italia viene chiamato PNRR (Piano nazionale ripresa resilienza). Il meccanismo è questo: “Ti do i soldi e andiamo avanti col programma solo se mi dimostri quello che stai facendo”. Nei casi come Ucraina e Somalia, viene indicato anche un quadro giuridico e sociale di intervento. Se vogliamo, queste sono le fondamenta su cui si costruisce la conferenza di Lugano, che è il seguito di una serie iniziata nel 2017: è un percorso che si sta sviluppando».
Cosa pensa dei punti fissati nella Dichiarazione di Lugano?
«Ci sono alcuni punti che mi sembrano qualificanti: intanto la forte presenza dell’Unione europea, rappresentata dalla presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen. Tutto il cammino di riforma e ricostruzione dell’Ucraina si svolge nel contesto europeo, con l’obiettivo di integrare sempre di più il Paese nell’UE in vista dell’adesione che, come sappiamo, si fa sempre più concreta con l’attribuzione dello status di Paese candidato, avvenuta nei giorni scorsi. Tra i vari punti c’è, ad esempio, la richiesta di una crescita equa e qui già vediamo una differenza rispetto alla fase di recupero dell’Ucraina dopo la fine dell’URSS. Allora, in Ucraina come in quasi tutte le Repubbliche sovietiche, vi fu uno sviluppo fortemente ineguale. Tutti conosciamo gli oligarchi, i ricchi accaparratori che approfittarono del disordine legislativo ed economico per impossessarsi di industrie e interi sistemi produttivi e bancari. Figure che ancora oggi rappresentano un problema, non solo in Russia, ma anche in Ucraina e in altre Repubbliche ex sovietiche. Il programma di cui si è discusso alla conferenza di Lugano parla esplicitamente di "deoligarchizzazione" del Paese e di applicazione di norme antitrust che rispondano allo standard dell’UE. Quindi tocca un nervo del Paese che è centrale, verso uno sviluppo sociale equo che, ad esempio, in Russia non è riuscito. Oggi in Russia esistono iniquità enormi tra questi super-ricchi e intere parti della Federazione abbandonate a sé stesse».
Un’Ucraina sempre più europea, dunque.
“Esatto. Lo si evince da un altro punto qualificante della Dichiarazione, ossia l’integrazione nell’UE come esplicito obiettivo per gli aspetti istituzionali e normativi. Cioè, le istituzioni dell’Ucraina e la sua legislazione devono essere guidate ad accostarsi sempre più alla logica dell’Unione europea, non solo da un punto di vista meramente giuridico ma anche economico. Quindi l’integrazione del Paese guidato da Zelensky nelle catene del valore europee e nelle reti di conoscenza, informazione e istruzione. E infine lo sviluppo dell’economia privata, che si ricollega al punto in cui si parlava di "deoligarchizzazione". Nelle Repubbliche ex sovietiche, gli oligarchi hanno assunto il ruolo in economia che nell’URSS aveva lo Stato: possiedono di fatto i mezzi di produzione. L’economia privata dei singoli non è culturalmente sviluppata per dar vita a un circuito economico di piccole e medie imprese (PMI) come lo conosciamo in Occidente. Non che in Ucraina e altre Repubbliche ex sovietiche non ci siano le PMI, ma queste non riescono a fare la massa critica che permette una equa distribuzione delle iniziative economiche tra soggetti piccoli e grandi. Quindi è necessaria una spinta culturale per favorire le PMI. Questo punto è esplicitamente citato, come sviluppo dell’economia privata, in un quadro di sviluppo dei principi dello Stato di diritto, quindi trasparenza, elezioni regolari, giustizia indipendente e trasparenza della pubblica amministrazione. L’Ucraina, rispetto ad altri Stati post-sovietici, ha già compiuto passi importanti, su questi punti. Se poi guardiamo le diverse voci del programma di lavoro, vediamo che, ad esempio, la difesa resta il primo capitolo, prioritariamente parlando, della necessità di investimento e di sviluppo».
Alla fine del conflitto la Russia rappresenterà comunque una minaccia?
«Questo è certo. In Ucraina si parte dal presupposto che quella russa resterà una minaccia strutturale. Cosa che è stata sottovalutata in passato. Però stiamo vedendo che fin quando la situazione politica in Russia non sarà chiara, e passeranno presumibilmente decenni, la minaccia verso le frontiere orientali dell’Ucraina è destinata a permanere. La Repubblica ex sovietica non vuole ripetere l’errore commesso all’uscita dell’URSS, quando, per non infastidire il vicino russo, rimase sottotono dal punto di vista di difesa e sicurezza. In quel periodo, all’epoca di Boris Eltsin, esistevano ancora rapporti abbastanza fluidi e trasparenti. Per quanto tra i due Paesi i rapporti non siano mai stati idilliaci, nessuno si poteva aspettare che sarebbero arrivate le “sparate” di Putin. Il fatto che la difesa venga messa al primo posto in un piano che guarda oltre la fine della guerra, indica una chiara decisione di posizionamento geopolitico dell’Ucraina in opposizione alla Russia».
Altri punti da approfondire?
«Ci sono capitoli dello sviluppo dei settori chiave dell’economia ucraina, come la metallurgia, la metalmeccanica e l’agricoltura. Si parla di informatica, che è una questione molto importante, e poi c’è tutto l’aspetto dell’efficienza energetica sul quale oggi l’Europa punta molto. Un altro punto importante, che fa capire quanto sia centrale per l’Ucraina l’avvicinamento all’UE, è l’eliminazione dei cosiddetti colli di bottiglia tra Kiev e l’Europa. Con un ammodernamento delle vie di comunicazione, la risoluzione di problemi logistici, l’efficientamento dei punti di frontiera. Le faccio un esempio, c’è una problematica abbastanza rilevante per quanto riguarda i trasporti: lo scartamento delle ferrovie ucraine è ancora quello sovietico, che è più largo di quello europeo. In altre circostanze, ho sentito riferire che l’Ucraina sta seriamente riflettendo sull’adozione dello scartamento europeo, proprio per ridurre i colli di bottiglia nel trasferimento di merci e persone in uno spazio che diventa sempre più “Ucraina europea”. In questo contesto diventa importante che il Paese sia capace di attrarre risorse dall’estero anche sotto forma di risorse umane. Quindi anche le condizioni di vita e il contesto sociale devono essere sviluppati in modo che intelligenze, tecnici, studenti e altre categorie rilevanti possano sentirsi invogliate a vivere e lavorare in Ucraina. Se si osserva questo insieme di dati, si vede bene che si tratta di una serie di presupposti che devono portare ad una stabilità macro-economica del sistema finanziario ucraino integrato nell’UE e ad una sicurezza nazionale che dovrà comunque tenere conto della minaccia russa».
Si è parlato di 750 miliardi di dollari per ricostruire l’Ucraina.
«Quei 750 miliardi di dollari rappresentano una cifra puramente indicativa, perché la guerra è ancora in corso. È una stima fatta al momento presente».
La URC 2022 cosa rappresenta invece per i russi?
«La Russia sperava che l’Occidente, dopo quattro mesi, si sarebbe disaffezionato alla causa ucraina. Invece, Mosca assiste a una conferenza nella quale una quarantina di Paesi chiave occidentali, tra cui i membri UE e Nazioni che hanno un potere centrale di decisione e di intervento economico si sono ancora una volta trovati uniti, a Lugano, nel sostegno alla causa ucraina. L’URC2022 è un chiaro messaggio alla Russia: per Putin è stata la dimostrazione che il suo calcolo sulla divisione dell’Occidente si è rilevato, almeno sinora, errato».
Non sono mancate le critiche: qualcuno ha fatto notare la scarsa copertura dell’evento da parte dei media internazionali ed erano assenti i capi di Stato…
«Mancavano la grande stampa estera e i capi di Stato dei grandi Paesi, ma più ci sono personalità non direttamente coinvolte, come appunto i capi di Stato, e più l’evento si trasforma in una parata dalla quale diventa difficile attendersi risultati concreti. Io giudico molto più utile il fatto che invece fossero presenti ministri, esperti di vari settori e i rappresentati delle organizzazioni internazionali, che erano in grado di parlare degli argomenti proposti: c’erano persone tecnicamente in grado di fare interventi concreti. Quando arrivano i capi di Stato e si prepara il grande evento internazionale, poi, inevitabilmente, si usano grandi parole e ci si espone alla critica “è stata solo una passerella”. Queste conferenze sono generalmente piuttosto concrete, è abbastanza normale che non suscitino grande clamore. Ecco, io personalmente non lo vedo come un limite, anzi, mi è sembrato meglio che ci fossero rappresentanti che hanno un coinvolgimento diretto, piuttosto che grandi nomi della politica e del giornalismo. Quelli che poi, finita la passerella, se ne tornano a casa e chi si è visto si è visto. Ovviamente la stampa svizzera ha seguito maggiormente l’evento, specialmente quella ticinese. Mi sembra un fatto positivo che Lugano abbia ospitato questa conferenza: il presidente della Confederazione, la presidente del Nazionale e tante altre autorità non si vedono tutti i giorni a Lugano. È normale che ci sia questa divergenza tra la stampa svizzera, e ticinese, e quella internazionale».
C’è chi ha reputato prematuro parlare di ricostruzione di un Paese ancora in guerra, affermando che il Donbass potrebbe diventare una provincia russa…
«L’obiettivo di Putin non è conquistare solo il Donbass, ma tutta l’Ucraina. È scritto nero su bianco (qui un approfondimento). Se la Russia dovesse conquistare il Donbass, non si accontenterebbe. È altamente probabile che quando Mosca avrà completato - se la completerà - la conquista delle due regioni di Lugansk e Donetsk, si fermi, perché al momento è spossata e senza energia. Può essere una pausa anche di 5 o 10 anni, non dimentichiamoci che la prima aggressione della Russia all’Ucraina è avvenuta nel 2014 in Crimea. Poi la Russia si è fermata, ha aspettato 8 anni e quest’anno ha fatto il secondo passo. Questo schema può ripetersi».
Il perdurare della presenza dei russi in territorio ucraino comprometterebbe l’ingresso di Kiev nell’UE…
«Certamente, anche se l’esempio di Cipro dimostra che un’adesione UE può avvenire anche con una parte di territorio occupata illecitamente [la parte nord dell’isola, dove esiste una repubblica filoturca autoproclamata]. In ogni caso, non solo per questo i russi devono essere cacciati. Tutto il mondo, di fronte alla guerra in Ucraina, ha un enorme problema di diritto internazionale. Recentemente ho letto un commento di Garry Kasparov, il campione di scacchi poi diventato attivista politico critico di Putin. Diceva: “Se gli ucraini non avessero respinto nei primi giorni di guerra le truppe di Putin a Kiev e la Russia avesse conquistato l’intera Ucraina, oggi noi vivremmo in un mondo completamente diverso. Dovremmo prendere atto che il presidente russo fa il bello e il cattivo tempo». Un mondo – aggiungo io – in cui la Russia avrebbe cancellato dalle cartine geografiche un Paese indipendente di 40 milioni di abitanti e noi, oggi, saremmo qui a chiederci quale sarà il prossimo. Il problema non è il Donbass. Il problema è che dalla Seconda guerra mondiale il diritto internazionale afferma che non devono più essere riconosciute le conquiste territoriali fatte con la forza. Se noi accettiamo che la Russia smembri a proprio favore una parte dell’Ucraina, non crolla solo l’integrità territoriale di questo Paese, ma crolla un principio fondante del diritto internazionale moderno. Per questo motivo la Russia non può vincere e l’Ucraina deve essere riporta al suo status territoriale precedente al 2014».