Tra i pionieri della fotografia nel giovane Ticino

Usciti da Castelgrande a Bellinzona ci girava un po’ la testa. Succedeva pochi giorni fa, a un niente dall’inaugurazione della mostra «Storie di fotografia. Il Ticino, i ticinesi e i loro fotografi nella collezione fotografica dell’archivio di Stato 1855-1930», che apre i battenti oggi. Perché, se ancora non fosse bastato il castello medievale, la visita in anteprima delle 150 immagini esposte ci ha riportato indietro nel tempo, ma non nello spazio. Quello che abbiamo visto era lo stesso Ticino in cui viviamo oggi, ma cento-cento cinquant’anni fa, quando il cantone balbettava i primi vagiti della propria identità, incerto sul da farsi, diviso tra opposte e battagliere fazioni politiche, sognato dai primi turisti d’oltre san Gottardo, ridefinito nei cantieri stradali e ferroviari, devastato dalle catastrofi naturali. In mezzo a tanto fermento c’erano loro, i pionieri della fotografia ticinese, l’apparecchio e le lastre a tracolla per inerpicarsi sulle montagne o in città, quando il mestiere era ancora misterioso e la magia delle lastre impresse doveva essere percepito come un mezzo miracolo dalla gente comune.

La voce delle immagini
Gianmarco Talamona (nella foto CdT sopra), curatore della mostra, si sofferma volentieri davanti ai primi scatti che abbiano mai rappresentato le nostre terre, ce ne spiega il senso, li contestualizza. Ma noi siamo ipnotizzati da quelle immagini in bianco e nero, alcune nitidissime, altre nebbiose. L’appassionata narrazione della nostra guida ci parla tanto quanto le fotografie stesse, potentissime a distanza di oltre un secolo da quando furono scattate.
Ci pare di vederli questi signori, artisti un po’ marziani, coi loro strumenti che catturavano forme, ma non colori, mentre mettono in posa benestanti e poveracci, cercano l’angolazione giusta e si predispongono a consegnare ai posteri un pezzo della nostra storia, forse senza saperlo. Lavoro di testa e di braccia. «Per le foto che non si facevano in studio – osserva Talamona – bisognava prendere i lastroni di vetro, andare sul posto, spennellare l’emulsione, infilarle nello chassis, mettere a fuoco senza disporre dell’esposimetro, con ampio rischio di sbagliare, esporre la lastra, tirarla fuori cercando un posto al buio, magari sotto una tendina, per poi sviluppare il tutto. Ci volevano tre quarti d’ora di lavoro per una sola foto. Senza dimenticare il peso fisico del materiale. Pensate a cosa poteva significare fare una foto sul Campo Tencia trasportando l’apparecchio e i lastroni».
I protagonisti
Ma chi erano questi marziani? «Il pioniere assoluto è Antonio Rossi che ha aperto nel 1841 il primo atelier fotografico a Locarno. Si era formato come marmista a Milano nell’atelier del padre e nel 1841 segue quest’ultimo a Locarno, chiamato a dirigere la scuola di disegno. E qui, accanto alla bottega paterna, apre il primo studio».
Poi c’è Angelo Monotti di Cavigliano (oggi frazione del comune di Terre di Pedemonte, assieme a Verscio e Tegna) che nel 1853 era emigrato a Livorno come ebanista. «In Italia apprende i rudimenti dell’arte fotografica e a Livorno apre uno studio negli anni Sessanta. Torna a Cavigliano, dapprima come ambulante, ma evidentemente guadagna bene, visto che pochi anni dopo costruisce una casa con accanto uno studio che chiama “la Galleria”». Da quell’atelier, tra l’altro, viene l’antico apparecchio fotografico esposto alla mostra e normalmente conservato nel museo di Intragna.


Va citato anche Grato Brunel, che ha aperto uno studio a Paradiso nel 1862 e dato il la a una dinastia di fotografi, e suo fratello gemello Ludovico, attivo a Bellinzona. «Avevano imparato il mestiere a Marsiglia. Come nei precedenti casi, vediamo come l’arte fotografica sia stata importata dall’estero. Tra i primissimi fotografi c’è anche Carlo Salvioni, di cui si sa relativamente poco. Qualcosa in più conosciamo di Carlo Saski, un esule polacco che aveva partecipato alle vicende belliche della Repubblica romana nel 1849 e alla sua caduta si trasferisce in Ticino. Attivo come pittore e fotografo, negli anni ‘50 realizza numerosi ritratti della borghesia luganese».
Tra i primissimi scatti presentati a Bellinzona ci sono 14 ritratti di Antonio Rossi (vedi articolo a sinistra). «Protagonisti sono i contadini valmaggesi che si facevano fare una delle poche foto della loro vita». Ma c’è anche una serie di carte de visite che nell’allestimento animano la sezione «I ticinesi allo specchio». «Venivano usate, per esempio, dagli emigranti ticinesi. È il caso dei tre fratelli Monaco nati a Verscio ed emigrati in America che nella seconda metà dell’Ottocento fotografavano i ticinesi in California. Questi, poi, spedivano la loro immagine ai parenti rimasti qui per far vedere come erano diventati nel frattempo, i figli avuti, lo status raggiunto, eccetera».
La seconda stagione
La prima generazione dei fotografi attivi in Ticino vede protagonisti dei ticinesi che vanno all’estero e tornano con questa nuova formazione, la impiantano nei centri, dove c’è più possibilità di fare ritratti e più committenza, dando il via ad alcune dinastie fotografiche. «Nella seconda, invece, l’impronta è soprattutto lombarda. Molti lombardi si stabiliscono da noi magari avendo già uno studio a Milano, aprendone un altro a Lugano o a Mendrisio. Una fase che si protrae fino agli anni Dieci-Venti del Novecento. Nel frattempo, crescono nuove generazioni di fotografi, ne aumenta il numero anche per ragioni tecniche: fotografare nei primissimi anni era estremamente laborioso. C’erano il dagherrotipo, le lastre al collodio... Poi nel 1880 arriva la lastra secca che si può impressionare e sviluppare più comodamente in studio e si amplia la possibilità di fare fotografia. Il mestiere diventa meno proibitivo».
La nascita dei cliché
Poi arrivano i turisti e tutto cambia. «Vero, con gli anni Dieci e Venti del Novecento molti fotografi svizzero-tedeschi si stabiliscono qui, senza avere avuto precedentemente delle relazioni con il territorio, attirati dall’industria del turismo, che era nelle mani degli svizzero-tedeschi, i quali affidavano le immagini ai fotografi d’oltre San Gottardo creando una sorta di economia chiusa. La cosa non era ovviamente gradita da fotografi ticinesi come Vincenzo Vicari, che nelle sue memorie ha stigmatizzato questo stato di cose.
È la trasposizione in ambito fotografico delle rivendicazioni ticinesi sulla temuta, vera o presunta, germanizzazione del Ticino. E parallelamente, nasce l’immaginario turistico del Ticino e dei Ticinesi, tutto zoccoletti e boccalino, «Eugenio Schmidhauser, fotografo ad Astano, lavorava per il Verkehrsbüro di Rudolf Fastenrath a Magliaso ed ha contribuito notevolmente a questo immaginario sui ticinesi, l’ha tipologizzato nel libro “Fröhliches Volk im Tessin”, ha dato forma estetica a un cliché culturale». Vediamo, nella mostra a Bellinzona, il suo ritratto – sicuramente inventato – del 1915 di una donna «in costume tipico» che fa la barba a un signore (sotto).

E i luoghi immortalati a beneficio dei turisti? La fanno da padrone la Cattedrale di Lugano, uno dei soggetti più fotografati nell’Ottocento, e la Madonna del Sasso, vera e propria icona del cantone. «Come i fratelli Alinari a Firenze fotografavano i monumenti per attrarre i turisti, allora i due soggetti più fotografati in Ticino erano questi. Del tutto ignorati invece castelli, ma a quell’epoca erano in stato di abbandono. Molte altre zone sono state dimenticate dai fotografi, come la valle Vedeggio, la Riviera o certe aree del Mendrisiotto. Mentre figura spesso Ascona», come attesta la foto di Steinemann del 1925 che mostra delle arance mature nella località di lago nel mese di gennaio (a voler credere alla didascalia pensata per i turisti del nord).
La fama a Venezia
Succede anche il contrario. Pensiamo a Carlo Ponti, un ticinese di Sagno. «Era andato a Parigi dove si è impratichito di ottica e a metà dell’Ottocento si è stabilito a Venezia, aprendo in Piazza San Marco 52 un atelier di ottica e fotografia. È diventato uno dei primi diffusori di immagini fotografiche dalla città lagunare. Ha anche costruito alcuni apparecchi fotografici». Ma gli scatti non erano destinati solo ai villeggianti o alla gente comune. Lo attestano le fotografie segnaletiche del 1902-1911 dell’Ufficio antropometrico della Polizia cantonale. Non appaiono i nomi, per rispettare la protezione dei dati personali, anche se sono ritratti scattati più di cent’anni fa. Sono le stesse foto che utilizzava Cesare Lombroso per definire i profili criminali delle persone ritratte.
La questione identitaria
Inoltrarsi tra le fotografie della mostra significa anche osservare la nascita della nostra identità cantonale. Abbondano le feste cantonali di ginnastica. Vediamo una scena del tiro federale del 1883, il primo di agosto ad Agno, e gli sguardi fissi sull’obiettivo dei partecipanti al Tiro conservatore delle tre Valli nel 1899 (foto sopra). Ecco anche le bande musicali, addirittura il Moto Club Ceresio con al centro il motociclista in tuta e occhialoni. Ma anche i cacciatori sul Monte Generoso, i bambini ad Osogna o un doppio matrimonio a Malvaglia. Tra gli immortalati anche dei teatranti. La foto è del 1890, l’autore Carlo Triaca, di Agno, un dilettante, morto giovane, che ha lasciato poche ma bellissime foto.


«Nell’Ottocento, spiega Talamona, il Ticino è un cantone giovane, dal profilo istituzionale ed economico è tutto da costruire. Nasce da otto baliaggi messi insieme ma che tra loro interagivano poco. La scuola, il servizio militare, i carabinieri, le associazioni contribuiscono a creare l’identità cantonale».
A proposito di scuole, impressiona la foto di alcuni giovanissimi seminaristi, in posa. Vediamo anche gli allievi del liceo C di Lugano nel 1913 e balza agli occhi che fra loro ci sono anche due ragazze. All’inizio crediamo di capire che si tratti del ritratto dei docenti, ma Talamona ci spiega che sono gli allievi. A indurci in inganno il loro abbigliamento elegante e impeccabile. Si capisce come a quei tempi fossero soprattutto i figli delle famiglie facoltose a studiare.
E tutto gira in politica
«Il Ticino è un cantone giovane, nato da otto baliaggi profondamente diversi tra loro, che dal profilo identitario è tutto da costruire. In questo processo entrano in gioco molti fattori, tra cui la scuola, il servizio militare o la vita associativa, e anche la fotografia ha avuto un suo ruolo».
A proposito di scuole, impressiona la foto di alcuni giovanissimi seminaristi, in posa. Vediamo anche gli allievi del liceo C di Lugano nel 1913 e balza agli occhi che fra loro ci sono anche due ragazze. All’inizio crediamo di capire che si tratti del ritratto dei docenti, ma Talamona ci spiega che sono gli allievi. A indurci in inganno il loro abbigliamento elegante e impeccabile. Si capisce come a quei tempi fossero soprattutto i figli delle famiglie facoltose a studiare (sotto).

La modernità
Le prime immagini fotografiche del Ticino ci introducono anche al tema del suo ingresso nella modernità. «Esatto. La fotografia è essa stessa prodotto della modernizzazione e cassa di risonanza della modernizzazione del Cantone», ci dice Gianmarco Talamona. «Attraverso la fotografia le autorità promuovo e fanno conoscere le opere di costruzione più importanti. Il Ticino ottocentesco ha molto investito sulle via di comunicazione, dapprima sulle strade, poi sulla ferrovia».
Magica la foto di un ignoto della trincea ferroviaria a Coldrerio per la realizzazione della tratta Chiasso-Lugano (1873-74). «Una foto incredibile, sembra presa nel Far West. Se la si guarda nel dettaglio, si nota che tutti i numerosissimi personaggi che la animano sono in posa. C’è anche un gruppetto di persone che improvvisa una scenetta. Il fotografo – la foto è del 1873 – in un qualche modo era riuscito a coordinare il tutto dalla postazione dalla quale scattava la foto». Ma ci sono anche immagini della posa di tubature a Bellinzona, di hotel che sorgono a Lugano, della selciatura delle strade sul Piottino o sulla Tremola... Così si veicola il progresso attraverso la fotografia.


Troviamo pure le sciagure. Allagamenti, frane. Ecco l’inondazione di piazza Riforma a Lugano nel 1896 con uomini e donne elegantemente vestiti che attraversano una passerella di legno sopraelevata che porta al Caffè Centrale. Uno scoscendimento a causa dell’alluvione sulla fabbrica Cima Norma a Dangio nel 1909. È immortalato con tre scatti un disastro venuto dal torrente a Magadino nel 1872. «Quello ticinese è un territorio turbolento e bisognava fare i conti anche con i cataclismi». Vediamo una splendida immagine d’autore sconosciuto di Airolo dopo l’incendio del 1877. «Giovanni Pedretti che era fotografo proprio ad Airolo si è visto distrutto studio e nei giorni successivi mise in vendita le vedute del villaggio prima e dopo l’incendio, appellandosi dalle pagine del Dovere affinché si venisse in soccorso di un fotografo che aveva perso il suo studio. In qualche modo, poté riaprire».

Le curiosità
Tra le curiosità mettiamo le stampe stereoscopiche, di fatto due foto dello stesso luogo accostate l’una all’altra che con degli occhiali particolari si potevano vedere in 3D. Siamo attorno al 1900. «Per via di un leggero décalage tra una foto e l’altra, viste con l’apposito apparecchio esce un effetto tridimensionale». Esposta anche la prima foto panoramica di Lugano, una «veduta presa dalla proprietà Ciani, parte di Porlezza» come spiega la dicitura originale del 1860.» L’autore è ignoto, potrebbe trattarsi di Saski che lavorava a Lugano proprio in quell’epoca. Balza all’occhio che ancora non esisteva il lungolago: per questo è stato possibile datare l’immagine. C’è anche un surreale San Salvatore coperto dalla neve, immagine del 1870 di autore ignoto. Sembra quasi una stampa giapponese. E una fornace a Riva San Vitale nel 1865. «La foto dell’edificio, scattata da Grato Brunel, era sul retro di un ritratto fatto molti anni dopo. In realtà la foto della fornace vale molto di più del ritratto stesso», conclude Talamona.

La collezione dell’Archivio di Stato
La mostra curata da Gianmarco Talamona Storie di fotografia. Il Ticino, i ticinesi e i loro fotografi nella collezione fotografica dell’archivio di Stato 1855-1930 (visitabile da oggi al 7 marzo prossimo) nasce dalla collezione dell’Archivio di Stato di Bellinzona che conta circa 1500 fotografie (numero in crescita). «Per l’esposizione – spiega l’archivista Gianmarco Talamona - ne abbiamo selezionate 150 distribuite in quattro sezioni molto diverse tra loro. L’idea è di presentare la percezione sul Ticino, del Ticino e dei ticinesi in modo molto ampio. Nel catalogo abbiamo cercato di sviluppare alcune storie legate a questo mondo con Nelly Valsangiacomo, Damiano Robbiani e Markus Schürpf: vicende che danno concretezza alle foto».
La collezione fotografica dell’Archivio di Stato affonda le radici negli anni Quaranta del ‘900, quando Carlo Rossi, nipote di Antonio Rossi, il pioniere assoluto della fotografia in Ticino, consegnò all’allora archivista Giuseppe Martinola 14 fotografie di suo nonno.


«Carlo Rossi, osserva il nostro interlocutore, era commerciante a Zofingen, era attivo in molti ambiti e si interessava anche di archeologia e di costumi ticinesi. E proprio conducendo delle ricerche sui costumi tradizionali ticinesi deve essere caduto sugli scatti di suo nonno. Di lì a rendersi conto di quanto poco restava dell’antenato e dell’interesse del documento fotografico il passo fu breve,
Contattò l’allora Archivio cantonale, scrisse un articolo sui fotografi ticinesi diventando il primo storico della fotografia del nostro Cantone, cercò anche di raccogliere informazioni e documenti presso altri fotografi. Soprattutto, come detto, ha costituito il primo nucleo della nostra Fototeca, rimasto dormiente per alcuni decenni. Colpa dello scarso interesse che fino agli anni Settanta e Ottanta circondava la fotografia, sia dal punto di vista artistico che storico-fotografico. Su questo slancio, negli ultimi 15-20 anni l’Archivio di Stato ha raccolto innumerevoli documenti che fanno riferimento al Ticino, ai ticinesi e ai fotografi ticinesi, materiali che possono arrivare per mille vie».
Nel 2017-2018, il corpus è poi stato oggetto di un progetto di conservazione e catalogazione sostenuto da Memoriav, l’associazione per la tutela del patrimonio audiovisivo svizzero. Il passo successivo è stato realizzare questa esposizione che, nel suo sottotitolo, rende esplicitamente omaggio a Il Ticino e i suoi fotografi, la mostra curata dalla Fondazione svizzera per la fotografia tenutasi a Lugano tra il 1987 ed il 1988, che ha rappresentato un momento cruciale nella presa di coscienza del valore storico della fotografia ticinese. Di fatto, Il Ticino e i suoi fotografi ha contribuito a dare il la ad una moltitudine di operazioni che, benché slegate tra loro e tra loro diverse per tempi, risorse e ampiezza, hanno consentito di mettere in luce figure e documenti della storia della fotografia nel Ticino.