Tra le rovine dei villaggi morti della Bielorussia

OCCHI SULL'EST (10. PUNTATA/FINE) Viaggio nelle aree più colpite dalle radiazioni a 30 anni dal disastro di Chernobyl: da Mogilev fino a Gomel, le due regioni più contaminate, nessuno ha più paura
Un quartiere di case a due piani in una zona contaminata.
Andrea Colandrea
18.08.2016 00:30

Il trentennale della catastrofe di Chernobyl, ricordato in tutto il mondo lo scorso 26 aprile, ha rilanciato con enfasi il dibattito sul nucleare, anche nel nostro Paese dove, la decisione presa dal Consiglio federale nel maggio del 2011 in sintonia con gli obiettivi già fatti propri da altre nazioni europee con la Germania in testa, è stata quella di optare per l'abbandono graduale di questa forma di approvvigionamento energetico, nella convinzione che fosse doveroso, anche per il bene delle generazioni future, puntare su fonti alternative, rispettose dell'ambiente e sicure per i cittadini. La consapevolezza sugli effetti nefasti che può causare l'energia atomica sull'ecosistema e quindi sull'uomo, in caso di gravi incidenti negli impianti di produzione, ha preso piede in modo sempre più marcato in buona parte del Vecchio Continente, a maggior ragione dopo il disastro di Fukushima l'11 marzo 2011. Ed è proprio a partire da questo nuovo evento catastrofico che è stato deciso lo smantellamento nei prossimi anni di oltre centocinquanta impianti di vecchia generazione.  Nell'Est europeo, invece, le cose non stanno esattamente così. Reportage dalla regione di Mogilev, che con quella di Gomel, è stata una delle aree più fortemente toccate dalle radiazioni. Intere zone sono ancora inaccessibili per la contaminazione. Trentadue Comuni del distretto di Cerikov sono spariti dalla cartina geografica come oltre un migliaio di altri villaggi bielorussi più a sud, lungo il confine con la Russia e l'Ucraina.

MOGILEV (dal nostro inviato) - Quando da Minsk imbocchiamo l'autostrada in direzione di Mogilev, è mattina presto e il sole che splende sulla Bielorussia mette a nudo una vasta campagna di cui, ogni abitante di questo Paese, va fiero. Lo Stato, che anche in queste ultime settimane – come ha ripetutamente affermato lo stesso presidente Alexander Lukashenko – intende «continuare a impegnarsi per sostenere i contadini», del resto, ha scommesso una buona parte del proprio futuro, proprio partendo dalle sue zone agricole e dai suoi prodotti (e non è certo casuale la proposta di discutere la liberalizzazione della legislazione per il settore del turismo rurale). Già, la terra di un Paese che, superati gli ostacoli degli embarghi internazionali lo scorso febbraio, può costituire un'importante carta vincente anche per gli scambi commerciali esteri (non solo più, quindi, concentrati verso la Russia) e da poco, appunto, anche in direzione dell'Unione europea (oltre ai mercati in cui la Bielorussia è già presente, dalla Cina al Sudamerica). Questo Paese privo di montagne, bagnato da undicimila laghi di piccole e medie dimensioni, è formato essenzialmente da estese aree pianeggianti o collinari che permettono lo sviluppo di una miriade di attività contadine quali la coltivazione del grano e delle patate, la produzione del latte e del burro, per non parlare della costruzione degli apprezzati trattori MTW con il marchio «Belarus» esportati in tutto il mondo, di cui, anche nel nostro viaggio, si vedono numerosi esemplari al lavoro sui campi, man mano che proseguiamo in direzione di Mogilev.

Vendita di funghi lungo le stradeLungo le strade di collegamento che lambiscono fitti boschi verdi, un gruppo di persone dei paesini locali vende prodotti della terra riposti in secchi e contenitori di vetro: lamponi, mirtilli, ciliege, ma anche patate e funghi. Sì proprio funghi. Ma da queste parti non sono contaminati? Azzardo la domanda, in modo un po' provocatorio, a una donna sulla quarantina vestita in jeans e una mantellina di colore blu che attende l'arrivo di clienti con un alcuni altri venditori improvvisati, sul ciglio della strada. «Da questa parte non c'è nulla di contaminato, sono tutti prodotti buoni», assicura sorridendo. Si dice che la zona inquinata dalle radiazioni toccherebbe circa il quindici per cento di tutta la terra coltivabile del Paese. Ma sono stime che non convincono fino in fondo non essendo rese pubbliche. I rischi di contaminazione, su cui la popolazione, in realtà, sa poco o nulla di scientificamente certo, aumentano, questo sì, recandosi nelle aree più «sensibili».

Cerikov si trova a un'ottantina di chilometri ed è una zona che rientra nella categoria. Alla fine degli anni Novanta, proprio nei dintorni di questa cittadina, le autorità seppellirono una trentina di villaggi per gli elevatissimi tassi di radioattività. Gli abitanti della zona, in parte attivi nei Kocholz – le aziende agricole collettive – o nelle fabbriche locali, furono spostati in altre aree non contaminate (o ritenute meno a rischio). Ce lo spiega la nostra guida, un simpatico cinquantenne da poco in pensione, che ha lavorato per anni nei pompieri e che abita proprio a Cerikov. Andrey conosce ogni angolo del distretto e, per cominciare, ci mostra il monumento dedicato dalla sua città alle vittime dell'incidente nucleare. «Sono trentadue i villaggi, qui intorno, che sono spariti dalla cartina – spiega – in buona parte sono stati interrati, di alcuni di essi sono rimaste le rovine: si trovano nell'area alienata, dove è vietato accedere. A ciascuno, in ricordo, è stata dedicata una lapide nera».

Il livello esatto delle radiazioni è sconosciuto, allora come oggi. Da lungo tempo, i cittadini di Cerikov, ci spiega Andrey, sanno che «la contaminazione qui attorno aveva superato i livelli di guardia. In alcuni villaggi che conosco molto bene perché vi svolgevo il mio lavoro, anche alla fine degli anni Novanta, era risultata superiore alla norma del 14 fino al 18 per cento». Indicazioni, pensiamo, che lasciano un po' il tempo che trovano, ma che la dicono sicuramente lunga su quanto verificatosi dopo l'incidente nucleare e perlomeno sulla percezione dell'accaduto da parte di chi tutt'oggi abita nelle vicinanze delle aree più contaminate della Bielorussia.

A bordo di un furgone entriamo in un'area boschiva isolata. La strada, sterrata, è lunga diversi chilometri e non vi s'incontra un'anima viva. Andrey ricorda quei giorni: «Quell'anno svolgevo il servizio militare nella DDR. Stavo ascoltando la radio, mentre a casa veniva messo al corrente dell'incidente soltanto chi abitava in un raggio di trenta chilometri dal confine ucraino (la centrale di Pripyat vi si trova a soli 16 chilometri, n.d.r.). Non si voleva diffondere il panico. Entro due giorni dai fatti tutti i soldati del nostro reggimento erano stati informati dell'accaduto».Ci avviciniamo alla zona «off limits». Si intravedono i primi cartelli di pericolo: «Radiazioni, zona contaminata. La raccolta di funghi e di frutti di bosco è permessa soltanto con l'apposito rilevatore». Ma i cittadini di Cerikov rispettano ancora queste indicazioni?

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