Trasformare lo studio in un lusso, un rischio troppo alto per il Paese

«Vedere gli studenti come “mucche da mungere” invece che come fattori di successo per il nostro Paese non è saggio». Martin Vetterli e Joël Mesot, presidenti rispettivamente del Politecnico federale di Zurigo (ETH) e del Politecnico federale di Losanna (EPFL), sono intervenuti ieri, con un’opinione pubblicata dal quotidiano ginevrino Le Temps, sulla questione dell’aumento delle tasse universitarie agli studenti stranieri.
La questione è nota: oltre un mese fa, contro il parere del Consiglio federale, il Parlamento ha stabilito che chi, provenendo dall’estero, volesse iscriversi all’ETH o all’EPFL, dovrà pagare una retta almeno tre volte superiore a quella degli studenti elvetici. Una decisione necessaria per recuperare, almeno in parte, le minori risorse che la Confederazione stanzierà a favore dei politecnici nei prossimi anni.
Giusto? Sbagliato? Forse, semplicemente miope, osservano Vetterli e Mesot. «Gli studenti stranieri portano molto in Svizzera. Secondo uno studio del 2023 di Avenir Suisse, la metà dei fondatori di start-up ha un passaporto straniero. I giovani altamente qualificati, da qualsiasi parte provengano, sono stati e sono un pilastro centrale della forza innovativa e, in ultima analisi, della prosperità della Svizzera. Così come la dotazione stabile e adeguata di un’istruzione superiore da parte delle autorità pubbliche. Un sistema universitario in cui queste condizioni non siano più valide è, a nostro avviso, contrario ai valori della Svizzera». Alcune università e scuole universitarie professionali hanno dovuto adattare le tasse al costo della vita, ma è la tendenza che preoccupa.
«Non sono clienti»
«L’idea alla base presentata nel rapporto Gaillard - dice al CdT Luciana Vaccaro, presidente di Swissuniversities- è «sbagliata. Si pensa agli studenti come fossero “utilizzatori”, clienti dell’università. Ma noi non stiamo parlando di persone che vanno al cinema o acquistano qualcosa da far pagare loro più caro. Gli studenti non sono consumatori: sono il nostro futuro. Vogliamo, nel nostro Paese, avere professionisti di alto livello? Allora, non li si può considerare o vedere come utilizzatori. Pensiamo a loro, invece, come fossero un investimento». Certo, insiste Vaccaro, oggi in Svizzera «abbiamo tasse universitarie molto concorrenziali, soprattutto con i Paesi anglosassoni. Ma questo ha garantito vantaggi enormi. Innanzitutto, un accesso equo all’istruzione superiore e un funzionamento dell’ascensore sociale. I talenti provengono da tutte le estrazioni economiche e sociali. Con una barriera economica, ci priveremmo di alcuni di questi talenti. In più, e questo lo dico da cittadina, mi preoccupa una frattura sociale tale per cui soltanto i ricchi possano studiare all’università. L’esempio degli USA, dove la coesione sociale, oggi, è frantumata, dovrebbe insegnarci qualcosa». Un’ulteriore considerazione della presidente di Swissuniversities conduce al tema della reputazione, fondamentale in una società fortemente competitiva qual è la nostra. «Gli studenti stranieri portano reputazione, e avere università attrattive contribuisce anche a rafforzare gli scambi culturali in cui poi si forma il pensiero critico. Non solo: le cifre dei politecnici federali ci dicono che il 75% degli studenti stranieri rimane in Svizzera dopo la laurea. Ecco perché parlavo prima di investimento: frenare il loro arrivo sarebbe un passo indietro dal punto di vista della dinamica universitaria e dal punto di vista della nostra economia».
Ticino scettico
Tra le università svizzere, l’USI è quella con le tasse più alte sia per gli studenti elvetici sia per gli stranieri, i quali arrivano a pagare 8 mila franchi l’anno. «Se a causa delle misure di risparmio della Confederazione dovessimo alzare ancora le rette, saremmo in grande difficoltà - dice al CdT la presidente dell’USI, Monica Duca Widmer -. Le università sono tuttavia cantonali, e la Confederazione può obbligare agli aumenti soltanto i politecnici federali». Il caso ticinese è del tutto particolare, insiste Duca Widmer: «Per forza maggiore, sin dall’inizio abbiamo dovuto imporre tasse più alte perché siamo un piccolo ateneo. Il rapporto tra professori e studenti è molto basso, certe scelte sono state necessarie per far quadrare le finanze. Certo è che andare in questa direzione, ovvero verso tasse più alte, è effettivamente un cambio di paradigma, perché in Svizzera si è sempre fatta una selezione sui cervelli e non sui borselli. Un certo rischio, quindi, c’è. D’altro canto, la Confederazione è posta di fronte a necessarie misure di risparmio e si può capire la richiesta agli studenti stranieri di uno sforzo economico maggiore: va detto che i nostri atenei sono tra i migliori al mondo e hanno rette tuttora basse». Fermo restando, conclude Duca Widmer, che «l’USI non ritoccherà i propri costi d’ingresso che sono già molto alti».
Il taglio federale di 60 milioni ai contributi di base per le università costerebbe, alla SUPSI, circa 4 milioni. «Se per compensarlo - dice al CdT il presidente Giovanni Merlini - procedessimo al raddoppio delle tasse per i residenti e, addirittura, alla quadruplicazione delle tasse per chi proviene dall’estero, non è detto che risolveremmo il problema, anzi. Una misura solo all’apparenza ovvia, ma le cui ripercussioni sono difficilmente calcolabili. Probabilmente, andremmo incontro a una flessione del numero di iscritti. Anche perché non va dimenticata la tipologia particolare dei nostri studenti, molti dei quali lavorano per finanziarsi la formazione. Chi ha uno stipendio dato, a fronte di un aumento di quattro volte delle tasse universitarie potrebbe anche decidere di lasciare gli studi».
Nel 2023, dice ancora Merlini, la SUPSI ha registrato «una piccola diminuzione di studenti ticinesi, compensata da un leggero aumento degli studenti provenienti dall’estero e da una sostanziale stabilità degli studenti provenienti da altri cantoni. Se la tendenza dovesse confermarsi nei prossimi anni, l’aumento delle rette di chi arriva dall’estero potrebbe diventare un problema ancora più acuto. Ragionando in un’ottica strategica, di politica della formazione, aumentare le tasse di iscrizione non sembra essere una soluzione intelligente. Potrebbe piuttosto rivelarsi un boomerang, qualcosa di tendenzialmente controproducente».
Secondo Mauro Dell’Ambrogio, per molti anni segretario di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione, c’è un’altra questione su cui vale la pena soffermarsi: decidere, cioè, «se l’istruzione universitaria debba essere o meno considerata ancora un interesse pubblico. Noi non abbiamo la tradizione dei Paesi anglosassoni, dove le famiglie sono costrette a investire ingenti risorse per la formazione dei figli. Nel sistema continentale europeo è la collettività che paga, tramite le imposte, la gran parte delle spese».
Il punto è dirimente perché determina «il criterio di selezione degli studenti - dice Dell’Ambrogio al CdT -. In un sistema, quello anglosassone, esso avviene quasi sempre per censo, per le capacità economiche delle famiglie; nel nostro sistema, invece, prevale la qualità degli studenti».
Avere una «quantità di buoni allievi provenienti dall’estero arricchisce sicuramente anche la qualità delle nostre università, in particolare per ciò che riguarda i dottorati e le attività di ricerca. Naturalmente, visto il numero, potrebbe pure essere corretto far pagare loro qualcosa in più rispetto agli studenti svizzeri - aggiunge l’ex segretario di Stato alla formazione -. Tutto, però, sta nella misura: sparare troppo verso l’alto rischia, effettivamente, di creare una selezione inopportuna e, a un certo punto, potrebbe anche ridurne il numero al di sotto della soglia necessaria».
Anche Dell’Ambrogio sottolinea, poi, l’importanza della «reputazione» degli atenei elvetici. «Oltre a coloro che rimangono in Svizzera a lavorare, sono allo stesso modo importanti gli studenti che rientrano nel proprio Paese, poiché diventano spesso involontari ambasciatori del sistema svizzero. Penso soprattutto a chi studia discipline legate in qualche modo alla nostra economia di esportazione: la chimica, la farmaceutica, l’industria di precisione. Questi studenti possono essere un buon investimento, indipendentemente dal fatto che restino o tornino a casa».
Uno sforzo complessivo
A difendere «l’opinione di chi ha voluto la possibilità di aumentare fino a tre volte le tasse universitarie degli studenti stranieri» c’è la voce di Mauro Poggia, consigliere agli Stati del Movimento dei Cittadini Ginevrini (MCG) e componente della Commissione cultura della Camera alta. «Ci sono economie da fare e abbiamo tentato di trovare dove farle. La riflessione sull’aumento delle tasse universitarie è partita dalla constatazione che le stesse, in Svizzera, sono veramente basse. Alcuni volevano andare al di là, rendendo il provvedimento obbligatorio. E, in ogni caso, bisognava dare un segnale». Poggia parla di uno «sforzo non tanto importante richiesto agli studenti stranieri» e si mostra comunque consapevole del fatto che «diventare meno attrattivi potrebbe essere un problema. Bisognerà, quindi, misurare anno dopo anno gli effetti della misura, sapendo che la formazione è la nostra forza. Tutti, però, sono chiamati a fare uno sforzo, ci sono spese da diminuire e nessuno è al di là di questi provvedimenti. Anche le università, che possono individuare forme di risparmio ed evitare di avere sempre la mano tesa verso la Confederazione».