La ricorrenza

Trent’anni fa il funerale dell’URSS

Il 25 dicembre 1991 l’allora presidente MIkhail Gorbaciov annunciò le dimissioni, mentre al Cremlino la bandiera rossa venne definitivamente ammainata per fare posto a quella tricolore
Mikhail Gorbaciov e Boris Eltsin © KEYSTONE
Marcello Pelizzari
25.12.2021 10:06

A Mosca faceva freddo, quella sera. Molto freddo. La temperatura era preceduta dal segno meno. Nevischiava, tanto per cambiare. Alle nove spaccate, la sigla del telegiornale Vremja entrò nelle case dell’Unione Sovietica. Come sempre. Eppure, nell’aria c’era qualcosa di diverso. Senza necessariamente scomodare gli Scorpions e la loro Wind of Change, da tempo non si parlava d’altro. Del cambiamento, appunto. Di più: l’attesa per il tiggì, il 25 dicembre 1991, era spasmodica. Perché Mikhail Gorbaciov avrebbe parlato alla nazione. Il presidente fu impeccabile. Fissò la luce rossa della telecamera, raccolse e organizzò i suoi pensieri con dignità. Quindi esclamò: «Nell’attuale situazione determinatasi nel Paese, io pongo fine alle mie funzioni di presidente dell’URSS».

Il Paese cui faceva riferimento «Gorby», beh, non c’era più. Aveva vinto la corrente Boris Eltsin. L’uomo nuovo, che già l’8 dicembre gettò le basi di una Comunità di Stati indipendenti. Gli ultimi dubbi di natura giuridica erano stati spazzati via con i protocolli di Alma-Ata. Il 25 dicembre, quel che restava del governo cadde con le dimissioni di Gorbaciov. La piazza Rossa, maestosa e bellissima, fu il teatro dell’avvicendamento. Mentre il padre della Perestrojka usciva dal Cremlino, la bandiera rossa della Rivoluzione, che per oltre settant’anni aveva dominato sul palazzo principale, venne ammainata e sostituita con il tricolore bianco, rosso e blu della Federazione russa. La bandiera di Pietro il Grande, che nel 1699 si ispirò a quella dei Paesi Bassi.

Piazza Rossa il 21 dicembre 1991, quattro giorni prima delle dimissioni di MIkhail Gorbaciov. © KEYSTONE
Piazza Rossa il 21 dicembre 1991, quattro giorni prima delle dimissioni di MIkhail Gorbaciov. © KEYSTONE

Per il mondo fu un terremoto
A suo modo, Gorbaciov fu profetico. Prima della Perestrojka, ovvero delle riforme e delle timide aperture, il presidente e il ministro degli Esteri Eduard Shevardnadze giunsero alla medesima conclusione: «Così non si può vivere». A mancare non furono certo le idee né l’ambizione, ma il tempo. «Il vecchio sistema è crollato prima che funzionasse il nuovo» disse Gorbaciov, rivendicando con orgoglio quanto era riuscito ad avviare prima dell’addio. Dalle citate riforme alla libertà di stampa.

Per il mondo, va da sé, fu un terremoto. L’impero dalle possibilità infinite era imploso. Colpa di un’economia devastata dalla corsa agli armamenti e dall’eterna lotta con gli Stati Uniti. E di un’ideologia troppo rigida. Lo stesso 1991, preso nella sua interezza, rappresentò il riassunto perfetto di cos’era diventata l’Unione Sovietica. Dall’intervento, fallito, in Lituania a gennaio alla partenza di Gorbaciov in dicembre, passando per l’incredibile (e improbabile) putsch fallito in agosto.

I buoi, però, a ben vedere avevano lasciato la stalla prima. Molto prima. Diciamo nel maggio del 1989, quando l’Ungheria aprì il confine con l’Austria creando – di fatto – un primo, importantissimo squarcio nella cortina di ferro. O ancora, il mese successivo, quando Solidarnosc vinse le elezioni polacche. I regimi comunisti, a Est, cadevano come birilli. Un effetto domino culminato a novembre con la caduta del Muro di Berlino e, poco dopo, la rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia.

Una marcia funebre
Per certi versi, Gorbaciov rappresentò per l’URSS ciò che un commissario straordinario rappresenta per un’azienda in fallimento. Tradotto: gli elementi di rottura che introdusse in una Mosca votata alla gerontocrazia e all’immobilismo, beh, accelerarono e non poco il processo, inevitabile, che portò alla dissoluzione. Ereditò un Paese allo sbando, caratterizzato dalla mancanza cronica di beni di consumo e da un debito pubblico enorme. Un Paese impantanato in una guerra assurda come quella in Afghanistan. Un Paese che, come detto, necessitava di riforme e nuovi paradigmi come la Perestrojka e la Glasnost. E che, giocoforza, doveva imparare a convivere con le diverse identità nazionali: i non russi, in pratica.

Dopo aver assistito, come un gigante inerme, al disfacimento dei vari regimi comunisti europei, Mosca giocò sulla difensiva anche in casa. Nel febbraio del 1990, ad esempio, concesse elezioni libere in quindici repubbliche sovietiche. Dopo la vittoria degli indipendentisti, sei di queste repubbliche dichiararono la loro sovranità nazionale e avviarono un braccio di ferro con il potere centrale. L’ingresso di Elstin a marzo, come presidente del Soviet supremo, spostò ulteriormente gli equilibri. Il fiasco dell’intervento in Lituania, il 13 gennaio 1991, rafforzò per contro il sentimento indipendentista che attraversava l’intera Unione (o ciò che ne restava). Gorbaciov, sempre più nudo, fu perfino costretto a fuggire durante il tentativo di putsch.

Il cammino dell’URSS, nel 1991, aveva insomma il tipico incedere della marcia funebre. Fra agosto e dicembre, il crollo fu verticale. A dichiarare l’indipendenza furono addirittura dieci repubbliche, a cominciare dall’Ucraina. In termini giuridici, la fine vera e propria venne sancita l’8 dicembre con la nascita della Comunità degli Stati Indipendenti. Addio.

© Mikhail Gorbaciov. © KEYSTONE
© Mikhail Gorbaciov. © KEYSTONE

Che cosa resta, oggi?
Trent’anni dopo, al netto dei mercatini delle pulci che vendono di tutto e di più dell’epoca comunista, a cominciare dai colbacchi dell’Armata Rossa, che cosa resta dell’Unione Sovietica? Mosca, volendo rimanere nella capitale, è una città tremendamente occidentale. Un’intera generazione è cresciuta senza avere memoria diretta del regime, mentre i più anziani – con nostalgia – ripetono il classico mantra: si stava meglio quando si stava peggio. Gli squilibri, agli occhi di molti analisti, sono rimasti gli stessi di sempre. Potere e ricchezze si concentrano nella capitale, oggi come allora. Vi dice nulla il nome di Vladimir Putin? Prodotto del KGB, presidente-padrone della Russia, recentemente si è soffermato proprio sulla dissoluzione dell’URSS e sulle difficoltà personali incontrate nei mesi successivi. Difficoltà miste vergogna, anche perché «per guadagnarmi da vivere arrotondavo facendo il tassista» volendo sintetizzare il suo discorso. Detto ciò, provate a parlargli dell’autonomia delle province e gustatevi la reazione.

Con il passaggio all’economia di mercato la Russia, va da sé, ha fatto un balzo enorme. In molti aspetti, come dicevamo, è un Paese occidentale. Tant’è che concetti come la proprietà privata e la libertà di impresa (pur con ingerenze, forti, politiche) sono oramai inalienabili. Resiste, tuttavia, una cultura dirigista. Una spinta centralizzatrice, anche. Come se il totalitarismo non fosse mai tramontato, a differenza della bandiera con falce e martello. E così, oggi, la Russia si ritrova con una sorta di capitalismo di Stato caratterizzato da corruzione e disuguaglianze. Volendo ricollegarci all’inizio dell’articolo: a Mosca fa ancora freddo.