Mafia

Trentuno anni dalla strage di Capaci, con Messina Denaro in carcere e la Trattativa che (non) fu

Il 23 maggio 1992, il tritolo piazzato da Cosa Nostra sull’autostrada A29 fece saltare in aria tutto, uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie e magistrata Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro
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Jenny Covelli
23.05.2023 15:30

«Sono già 31 anni che il tempo per loro si è fermato in quel pezzo di autostrada tra l’aeroporto e Palermo divelto all’altezza di Capaci. Sono anche 31 anni che li ricordiamo, parliamo di loro, portiamo il loro esempio a chi in quell’estate del 1992 era troppo piccolo o non era ancora nato. Sono 31 anni che parlano, ispirano, guidano le scelte di tante cittadine e cittadini del nostro Paese, contro le trame e gli affari di pochi. Sono 31 anni che, ogni giorno, è il 23 maggio 1992». È con queste parole che Pietro Grasso, ex presidente del Senato ed ex capo Procuratore della Repubblica di Palermo, ricorda questa mattina la strage di Capaci. Era il 23 maggio 1992, 31 anni fa. Alle 17.58 il tritolo piazzato da Cosa Nostra sull’autostrada A29, nei pressi di Capaci, fece saltare in aria tutto, uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie e magistrata Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Una data che viene celebrata ogni anno, e non solo in Italia, perché «il ricordo è vita». E «gli uomini passano, le idee restano» – per usare le parole del giudice –, «restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini».

Ed è proprio su questo principio che si basa l'iniziativa di Wikimafia che, come lo scorso anno, ha deciso di tornare a «dare voce a Falcone», inondando i social network con le citazioni di Giovanni Falcone. Perché, a distanza di tre decenni, sono ancora le parole l’arma più forte. Lo sa bene Marcelle Padovani, giornalista e saggista francese, che nel 1991 scrisse con il giudice Cose di Cosa Nostra. E che, intervistata da Palermo Today, ha ricordato le emozioni di 31 anni fa: «C'è voluto del tempo per realizzare l'importanza e il significato dell'evento, perché naturalmente sul momento prevalgono i sentimenti e l'emotività. Successivamente è partita la riflessione, su cosa significava quell'attentato. Che era stato eliminato l'uomo che rappresentava in quel momento il meglio della magistratura nella lotta contro la mafia, con un alto senso delle istituzioni, e che pensava anche alle modalità per modificare le leggi per rendere ancora più efficace il contrasto a Cosa Nostra».

Il primo anniversario senza boss in libertà

Un anniversario che cade pochi mesi dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, l'ultimo boss stragista, arrestato a Palermo il 16 gennaio 2023. Che proprio pochi giorni fa, durante un colloquio con le tre sorelle in carcere, dall'altra parte del vetro ha loro assicurato: «Non mi pento». Una linea già chiarita ai pm, a cui il boss ha sin da subito spiegato che non avrebbe collaborato. Anzi, si è lasciato andare in lunghe dichiarazioni in cui si discolpa di ogni omicidio, strage o delitto per cui è stato condannato. Ha negato, tra gli altri, di avere ordinato il brutale assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo, ucciso e poi sciolto nell'acido a 12 anni. Ha ammesso di averne ordinato il sequestro nel novembre del 1993, per vendetta nei confronti del padre Santino Di Matteo collaboratore di giustizia, ma non di averne commesso l'omicidio, scaricando su Giovanni Brusca la responsabilità del delitto. Ieri, a Castelvetrano, la scuola elementare che dista 20 metri dalla casa dei Messina Denaro è stata intestata a Giuseppe Di Matteo. «Mio fratello oggi avrebbe avuto 43 anni», ha dichiarato Nicola Di Matteo. «Rileggete i verbali di cosa hanno fatto passare a mio fratello durante il suo rapimento durato ben 779 giorni chiuso in una stanza, buttato a terra con un materasso a Castellammare del Golfo all'interno di stanza murata dove gli passavano il cibo da una finestra. In questa maniera vi renderete conto di quanta atrocità hanno riversato su di lui. Messina Denaro dovrebbe fare mente locale di tutto quello che insieme a Brusca hanno organizzato e anche se non è stato l'esecutore materiale, era chiaramente d’accordo sulle decisioni prese su mio fratello Giuseppe. Lui e Brusca erano della stessa famiglia, quella dei Corleonesi». Il boss, durante l’interrogatorio in carcere e davanti al gip, ha addirittura affermato di non essere affiliato a Cosa Nostra. Sarebbe tutta colpa del padre, Francesco Messina Denaro, amico di Totò Riina.

Matteo Messina Denaro che il 23 maggio 2022, un anno fa, nel trentesimo anniversario di Capaci, si trovava bloccato nel traffico. Latitante da trent'anni eppure lì, incolonnato in direzione di Palermo, in ritardo all'appuntamento con una donna. Cellulare in mano, WhatsApp, e un messaggio vocale: «Sono qua, bloccato, con le 4 gomme a terra. Cioè non nel senso di bucate, ma bloccate perché sono sull’asfalto e non mi posso muovere. Per le commemorazioni di 'sta minch*a. Porco mondo». Oggi è rinchiuso al 41 bis nel carcere di L'Aquila.

La Trattativa che non c'è stata

L'anniversario di oggi è il primo in cui, stando alla verità giudiziaria, tutti i colpevoli accertati delle bombe del 1992 e del 1993 sono in carcere, al 41 bis, o deceduti. Ma molto resta da fare per chiarire le zone d’ombra che continuano a gravare sulla stagione delle stragi. Il 27 aprile 2023, la Corte di Cassazione ha messo la parola «fine» sulla presunta trattativa Stato-mafia, affermando che gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno «non hanno commesso il fatto» (l’accusa per i militari era di avere trasmesso fino al cuore delle istituzioni, i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, la minaccia di Cosa Nostra, cioè altre stragi e altri omicidi eccellenti se non fossero state alleggerite le condizioni carcerarie dei mafiosi detenuti). Una formula piena, mentre la Corte in secondo grado aveva utilizzato la formula meno ampia «perché il fatto non costituisce reato», assolvendo gli imputati. I supremi giudici sono quindi andati oltre quanto già deciso dai giudici di secondo grado di Palermo. Per il boss corleonese Leoluca Bagarella e per il medico di Totò Riina Antonio Cinà, considerato vicino a Bernardo Provenzano, è intervenuta la prescrizione. Confermata l'assoluzione per l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri (accusato di avere trasmesso la minaccia mafiosa al governo di Silvio Berlusconi). Per il procuratore generale, la sentenza di secondo grado ha descritto «la trattativa negli anni ma non fa una precisa ricostruzione della minaccia e di come sia stata rivolta al governo» e lo fa solo in modo «congetturale».

Con la decisione di fine aprile, i giudici sostanzialmente affermano che le minacce furono soltanto dei meri tentativi da parte di alcuni esponenti di Cosa Nostra. Nelle migliaia di pagine delle motivazioni della sentenza di secondo grado, i giudici siciliani, spiegando le ragioni dell'assoluzione dal reato di minaccia al Corpo politico dello Stato e parlando del ruolo svolto dai militari dell'Arma, aveva scritto che «una volta assodato che la finalità perseguita, o comunque prioritaria, non fosse quella di salvare la vita all'ex ministro Mannino o ad altre figure di politici che rischiavano di fare la fine di Lima, nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all'escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell'ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane». Analisi non condivisa dalla Suprema corte, secondo la quale i militari non hanno proprio commesso il reato contestato. Insomma, la Cassazione ha messo la parole fine sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Lo ha fatto dicendo che non ci fu Trattativa, e circoscrivendo tutte le possibili responsabilità soltanto ad esponenti mafiosi di Cosa Nostra, prescritti per aver solo tentato di minacciare lo Stato a suon di bombe.

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