Un altro «tragico incidente»
C’è una flebile possibilità che le vittime del bombardamento dell’esercito a Rafah possano essere ricordate come quelle il cui sacrificio ha fermato le ostilità nella Striscia. Dopo otto mesi di violenti combattimenti, l’episodio della tarda serata di domenica, quando è stato colpito il campo profughi di Tel al-Sultan, subito a nord della città più meridionale della Striscia e poco sopra il campo che di Rafah porta il nome, potrebbe essere la chiave per mettere in pausa le operazioni. Difficile che accada, ma la pressione su Benjamin Netanyahu, è tanta e da più parti.
Vite compromesse
Il Rubicone, il primo ministro israeliano lo aveva già varcato quando, il 7 maggio, i carri armati hanno preso possesso di Rafah, città, valico e campi limitrofi. «Un’operazione limitata, circoscritta, di precisione», avevano detto i vertici militari e governativi a chi faceva notare che sarebbe potuta essere una carneficina, vista la presenza di oltre un milione e mezzo di profughi, arrivati all’estremo sud della Striscia dopo essere scappati dalle zone di guerra devastate di nord e centro. L’annuncio dell’operazione ha portato oltre due terzi di questi a rifare il percorso inverso, scappare dove la guerra non è mai finita, temendo sorte peggiore nella città meridionale. Che era diventata il più grande campo profughi al mondo. Le tende di plastica, di lamiera, le strutture realizzate con i materiali di risulta e avanzati dai bombardamenti nascevano come funghi nei mesi scorsi, per poi essere smontate nelle ultime settimane.
Venerdì la Corte Internazionale di Giustizia aveva intimato a Israele di fermare qualsiasi operazione a Rafah, per non compromettere salute e vita dei civili. Mentre usciva la sentenza all’Aja, un aereo colpiva una postazione di Hamas a Rafah. Cosa successa, stando a quello che dice l’esercito, pure domenica sera.
In mezzo, per aggiungere orrore a orrore, pericoli su pericoli per i civili, Hamas nel pomeriggio di domenica ha lanciato otto razzi verso il centro di Israele. Non lo faceva da quattro mesi, ha puntato verso città come Tel Aviv ed Herzliya, dove due donne sono rimaste ferite e una casa danneggiata dai resti dei razzi intercettati dall’Iron Dome. Dopotutto, che a Hamas non stiano a cuore le sorti dei civili di Gaza è dimostrato dalle dichiarazioni dei loro leader, che più volte hanno detto che il sangue di donne e bambini è necessario.
La stretta sul premier
Poche ore dopo questi lanci, quando solo qualche piccolo fuocherello illuminava il campo profughi, un ordigno è stato sganciato da un aereo israeliano. L’esercito afferma che ha colpito una postazione di Hamas, uccidendo due dei suoi leader. Ma le immagini che hanno cominciato a circolare, hanno mostrato di nuovo tutto l’orrore della guerra: le tende di plastica hanno subito preso fuoco, le fiamme si sono propagate facilmente e velocemente, avviluppando quello che trovavano, senza distinzione di uomini, donne o bambini. Almeno quaranta, dicono le fonti di Hamas, i morti. «Nonostante i nostri sforzi per non ferirli, si è verificato un tragico incidente. Stiamo indagando sull’accaduto», ha detto Netanyahu, in uno dei rari commenti su una delle tante azioni del genere. «Per noi è una tragedia, per Hamas è una strategia», ha detto parlando ai familiari degli ostaggi, che chiedono un accordo ad ogni costo. Nei giorni scorsi era circolato un video dove alcuni riservisti si volevano ammutinare quando si era diffusa la notizia che Israele avrebbe fermato le operazioni a Rafah. Vogliono prendere Hamas, altrimenti il sacrificio dei loro commilitoni morti in guerra, 287 a oggi, sembra vano.
Netanyahu è stretto dalla necessità di vincere la guerra, che significa distruggere Hamas, e quella di riportare a casa gli ostaggi o quello che di loro resta. Anche il membro del gabinetto Gadi Eisenkot, ex generale che ha perso un figlio in battaglia a Gaza nei mesi scorsi, ha chiesto una pausa a Rafah per ottenere in cambio gli ostaggi.
Israele, mediaticamente e politicamente, è in un angolo. Paesi, organizzazioni internazionali e non governative, non sono più disposti a dargli credito. Hamas, attraverso il Qatar, fa sapere che il bombardamento di Rafah può impedire che oggi riprendano i colloqui. «Israele deve prendere tutte le possibili precauzioni per proteggere i civili», si è limitata a sottolineare la Casa Bianca. Il problema è che, secondo alcune fonti, il bombardamento al campo profughi è avvenuto utilizzando un ordigno da 2.000 libbre, uno di quelli che Washington ha fornito a Gerusalemme e che all’inizio di maggio ha annunciato che non avrebbe più dato, proprio per la preoccupazione di un attacco nella città meridionale.
Morto un soldato egiziano
Difficili, quest'oggi, i contatti con Rafah che, dal 7 maggio, è un campo di battaglia. Netanyahu aveva schierato i carri armati e minacciato un’operazione in vasta scala per mettere pressione su Hamas per i colloqui, che poi si sono arenati comunque. E ha ottenuto l’effetto di allontanare da sé anche l’unico alleato che, in zona, stava lavorando - in qualche modo - al suo fianco, l’Egitto. Il Cairo, infatti, ha protestato per la presa del valico di Rafah da parte dei soldati israeliani. Anche perché, il valico e l’alto Sinai, sono sempre state zone franche controllate da clan di beduini che gestiscono il contrabbando di armi e droga verso Gaza e Israele. L’Egitto ha sempre fatto finta di non vedere quello che succedeva per evitare che si ripercuotessero problemi in altre parti del Paese, più vicine alla capitale. Pertanto, dal 7 maggio, l’Egitto ha bloccato l’ingresso di aiuti da Rafah. Solo due giorni fa, grazie alla pressione di Biden su el-Sisi, di concerto con l’Autorità Palestinese, ha autorizzato l’ingresso di aiuti da Kerem Shalom. Un soldato egiziano è stato ucciso dalle truppe israeliane, che hanno riferito di aver risposto al fuoco, in un incidente non nuovo in zona, ma che, in questa situazione delicata, con l’Egitto rimasto principale mediatore per i colloqui su tregua e liberazione degli ostaggi, unito al bombardamento su Rafah e al controllo israeliano del valico, rischia di far allontanare anche l’unico “amico” di Israele in questa situazione. A meno che Netanyahu non faccia un passo indietro.