«Un inquisitore ma soprattutto un grande studioso»

Chi era veramente Bernardo Gui, il temibile inquisitore del Nome della Rosa, il capolavoro di Umberto Eco che viene reinterpretato nella serie-evento tv con protagonista John Turturro (Gugliemo da Baskerville) e Rupert Everett (Bernardo Gui)? Ce lo racconta Marcello Simoni (nella foto sotto) che ha curato l’introduzione della quinta parte del Manuale dell’inquisitore di Bernardo Gui, tradotta dal latino da Michela Torbidoni e appena ripubblicata da Newton Compton.

Marcello Simoni, è appena partita la serie tv su Il Nome della rosa, ma immagino che lei si sia mosso indipendentemente da questo appuntamento televisivo. Quindi: perché rispolverare oggi il manuale dell’inquisitore di Gui, tra i «cattivi» del romanzo di Eco?
«Innanzitutto, più che una riscoperta, questa è una scoperta. Si tratta di un manuale che viene periodicamente riproposto alle stampe. Però è anche vero che Bernardo Gui viene conosciuto soprattutto per Il nome della rosa. E spesso di quest’uomo abbiamo un’immagine distorta, romanzata, appunto».
Invece?
«Invece noi abbiamo voluto aprire una finestra storica che ci fa capire esattamente come ragionava e come viveva un inquisitore del Trecento all’inizio della cattività avignonese (espressione con la quale nella storia della Chiesa cattolica si indica il trasferimento del papato da Roma ad Avignone dal 1309 al 1377- ndr)».
E cosa emerge?
«Attraverso questo testo e lo studio di Gui esce un quadro diversissimo da quello noto. Bernardo Gui fu sì un inquisitore, ma fu prima di tutto un grande studioso. Compose trenta opere, alcune delle quali sono ancora prive di edizione critica. Insomma, conosciamo più l’immagine che il lavoro effettivo di questo personaggio. Fu molto probabilmente un uomo ambizioso. È un frate venuto dal Limousino, probabilmente da famiglia nobile che lo dona come oblato a un convento. Grazie alla sua intelligenza e ad un incredibile spirito di sacrificio riesce a farsi strada, si avvicina ad Avignone. E l’unico modo che ha per far carriera è diventare inquisitore generale di Tolosa in un momento molto problematico».
Perché?
«Perché il sud della Francia nel Trecento era un crogiolo di eresie. Abbiamo solo uno spettro limitato del movimento ereticale di quel periodo. Lui cerca di farsi strada e di avvicinarsi al Papa, ma alla fine non riesce a fare la carriera che sperava e che forse meritava, date le due doti intellettuali. Gli danno infatti un piccolo vescovado in Galizia, ma lui rifiuta di prenderlo. Gliene offrono un altro quando ha settant’anni e poco dopo muore, senza arrivare agli alti gradi dell’ordine domenicano, come forse gli sarebbe spettato. Una figura che viene trattata molto meglio è l’inquisitore spagnolo di Girona, Nicolas Eymerich (1320-1399, ndr.), che compare anche nei romanzi di Valerio Evangelisti».
Nel manuale Bernardo Gui descrive nei dettagli le cinque «sette ereticali» che combatte. Come le conosceva? Era una sorta di agente segreto che faceva inchieste sotto copertura?
«In realtà il suo approccio è quello dello studioso. Un approccio quasi catalografico. Quando lui descrive le eresie nel suo testo, che è un prontuario per gli inquisitori, il suo approccio è quello del ricercatore. Sembra che parli dei manichei o dei poveri di Lione attraverso dei libri. Anche i riti e i riferimenti a Dolcino, sembrano talmente precisi –mette date e luoghi – che probabilmente provengono da scritti di altri domenicani. (Dolcino da Novara fu accusato di eresia, catturato e arso vivo nel 1307 - ndr). Poi probabilmente c’è anche una parte della sua opera che viene dall’esperienza personale. Il modo in cui pone le domande ai sospettati di eresia indica una lunga pratica inquisitoriale che fu parte del suo mestiere. Del resto, sappiamo che per dare la caccia agli eretici si mosse fisicamente in vari punti del sud della Francia, tutto intorno a Tolosa, in una zona difficile».
Un gran viaggiatore, quindi?
«Sì, in un periodo e in una zona dove non era facile spostarsi. Lui lo faceva a dorso di mulo, a cavallo, o con le imbarcazioni sui fiumi interni della Francia. Si trovò di fronte a un mestiere che lo impegnava tantissimo sia dal punto di vista intellettuale che burocratico e fisico».
Nel manuale, Gui parla del dilemma dell’inquisitore, assalito da inquietudine perché «in parte è preda della sua coscienza all’idea di punire qualcuno che non abbia rilasciato una vera confessione e di cui quindi sia provata la certa colpevolezza. Inoltre l’animo dell’inquisitore, che ha esperienza delle menzogne, astuzie e malignità di cui gli eretici sono capaci, è ancora più tormentato dall’idea che questi possano farla franca». Nello stesso tempo la sua resta una figura minacciosa per i sospetti.
«Sì. Gui ha questa componente etica. Il suo problema è morale: assolvere in modo corretto il suo compito e occuparsi di chi si era macchiato di quello che in Medioevo era considerato un crimine, l’eresia. Il suo scrupolo si evince anche dal fatto che ha voluto comporre quest’opera».


Ma perché un’opera del genere?
«Perché nel Medioevo l’inquisizione non era regolamentata da una legislazione ferrea, come lo sarà invece in età moderna dopo il Concilio di Trento, quando l’istituto inquisitoriale viene riformato e affiancato dalla Congregazione dell’indice».
E nel Medioevo?
«Nel Medioevo c’era soltanto un ridotto numero di bolle e di lettere papali che davano delle normative di massima. Ma in realtà, l’inquisitore che veniva nominato all’epoca non sapeva neppure distinguere tra la pratica di procedura criminale ordinaria e la pratica di procedura criminale spirituale. Questi manuali e tutti i manuali scritti dai confratelli di Gui, prima o dopo erano mossi dal problema di operare in modo ordinato e di punire effettivamente i colpevoli. Non a caso Gui fa riferimento a un uso parsimonioso della tortura che – se applicata in modo troppo rigido e zelante - poteva anche indurre le persone innocenti a confessare colpe che non avevano commesso».
Quindi non era proprio il «mostro» che emerge dal Nome della rosa?
«Diciamo che Gui ha mandato sul rogo circa una cinquantina di persone. Non era propriamente morbido».
DA SAPERE
Il libro

Bernardo Gui, Il manuale dell’inquisitore. Introduzione storica di Marcello Simoni. Practica Officii Inquisitionis Hereticae Pravitatis (parte V), Traduzione dal latino di Michela Torbidoni. Prima edizione: febbraio 2019, Newton Compton editori s.r.l., Roma
L’originale
La Practica Inquisitionis. Il testo latino, integrale, del manuale di Bernardo Gui è attualmente contenuto soltanto nell’edizione parigina del 1886 di Célestin Douais, che si basò su quattro manoscritti superstiti: due esemplari del XIV secolo provenienti dalla Biblioteca pubblica di Tolosa, ovvero il Ms. 387 e il Ms. 388; un terzo, sempre del XIV secolo, custodito al British Museum (fondo Egerton, Ms. 1897); una trascrizione del XVII secolo reperita tra gli scaffali della Bibliothèque Nationale di Parigi (collezione Doat, voll. XXIX e XXX).
Le cinque sette
«Sono cinque le sette contro cui procede il giudizio dell’Inquisizione - scrive Gui nel suo manuale - ovvero i manichei, i valdesi detti anche i “poveri di Lione”, gli pseudo-apostoli, coloro che sono comunemente chiamati beghini, i giudei che convertiti al cristianesimo tornano al giudaismo, e infine ci sono i maghi, gli indovini, quelli che invocano demoni, i quali come una peste stanno infettando la purezza della nostra fede».
Bernardo Gui
Nome in latino: Bernardus Guidonis (1261-1331). Francese, fu frate domenicano e vescovo di Lodève. Come inquisitore, pronunciò ben 938 sentenze di condanna contro gli eretici, tra cui 45 esecuzioni capitali. È considerato uno degli scrittori più prolifici del Medioevo.
La descrizione di Eco

«Era un domenicano di circa settant’anni, esile ma dritto nella figura. Mi colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel celare pensieri e passioni che nell’esprimerli a bella posta». Così Umberto (nella foto) Eco lo descrive, attraverso le parole del novizio Adso da Melk, nel quarto giorno de Il Nome della rosa.
Marcello Simoni
Nato a Comacchio nel 1975, laureato in Lettere, è un ex archeologo e bibliotecario. Ha pubblicato diversi saggi storici, soprattutto per la rivista specialistica Analecta Pomposiana. Molte delle sue ricerche riguardano l'abbazia di Pomposa. È autore di bestseller di successo, tra cui Il mercante di libri maledetti (Premio Bancarella), La biblioteca perduta dell’alchimista, Il labirinto ai confini del mondo; L’isola dei monaci senza nome (Premio Lizza d’Oro); La cattedrale dei morti; le serie Codice Millenarius Saga e Secretum Saga.