Fogli al vento

Un signore normale

Ma tu guarda: a Palazzo Reale di Milano, dove solitamente vengono esposte opere di grandi artisti, mi sono imbattuto in una mostra dedicata a Mike Bongiorno, nel centenario della nascita di un personaggio che, secondo Umberto Eco, contribuì almeno quanto Garibaldi all’unità d’Italia
Michele Fazioli
Michele Fazioli
07.10.2024 06:00

Ma tu guarda: a Palazzo Reale di Milano, dove solitamente vengono esposte opere di grandi artisti, mi sono imbattuto in una mostra dedicata a Mike Bongiorno, nel centenario della nascita di un personaggio che, secondo Umberto Eco, contribuì almeno quanto Garibaldi all’unità d’Italia portando nelle case dello stivale allungato fra sud e nord una unificazione di lingua e costumi. Nella mostra, interattiva, sono stati ricostruiti anche dei pezzi di studi televisivi, con le mitiche cabine in cui concorrenti sudaticci accompagnati da vallette ancora vestite tentavano di diventare milionari facendo capo alla propria erudizione mnemonica. 

Mike Bongiorno fu un personaggio epocale, un pioniere della rivoluzione mediatica appena avviatasi, che egli accompagnò per quasi sessant’anni, da metà degli anni Cinquanta fino a quando morì ottantacinquenne nel 2009. Fu l’icona dell’Italia che rinasceva nel boom del dopoguerra e conquistava frigoriferi panciuti, Lambrette, Vespe, Fiat 600 e televisori con le meraviglie tremolanti in bianco e nero, dal Giro d’Italia che entrava nelle case a Domenico Modugno che a Sanremo gridava «Volare». Mike Bongiorno, italoamericano di ingegno, aveva portato dagli Stati Uniti l’invenzione dei quiz dentro la neonata televisione italiana. Il primo quiz in assoluto (e il solo, per parecchi anni: oggi ne spuntano a decine ogni giorno, l’incanto è finito, è solo un’abitudine) fu Lascia o raddoppia?, che ebbe subito riflessi anche in Ticino, dove la TSI sarebbe nata soltanto nel 1959 (la tv della RAI nel 1954). I televisori non erano ancora entrati nelle case, ce n’era appena qualcuno in pochissimi ristoranti e diffondevano, solo in certe zone del cantone, il programma unico italiano (un lampo di ricordo infantile: luce azzurrina dall’alto nell’odore pungente di Campari e sigarette). E così in alcuni cinema il giovedì sera al posto del film proiettavano la diretta di Lascia o raddoppia? per un pubblico folto con il vestito buono e lo sguardo stupito davanti alla meraviglia di quella nuova lanterna magica che per qualche tempo non era ancora diventata frazionata e domestica ma collettiva e comunitaria. 

Il già citato Umberto Eco nella sua Fenomenologia di Mike Bongiorno sostenne che il creatore di Lascia o raddoppia? ebbe subito un enorme successo perché era un uomo normale, non più intelligente e colto della media generale di un pubblico che in lui si identificava senza invidiarlo. Nel giro di pochissimi anni quell’uomo normale aveva invaso il Paese da Ponte Chiasso alla Sicilia, unificando gusti, linguaggi e tendenze. 

Persino il nome lo aiutava, con quel Mike che evocava il sogno americano del primo dopoguerra e quel Bongiorno come un saluto italico. Non guastava il fatto che da giovanissimo aveva fatto la Resistenza in Italia da cittadino USA, fu arrestato dalla Gestapo e salvato soltanto da uno scambio di prigionieri con gli americani. 

Certe sue gaffes (che lo umanizzavano) sono rimaste celebri. Ne cito soltanto una. Rispondendo al celebre tuffatore subacqueo Ettore Maiorca che gli aveva detto «So che lei, Mike, è un sub eccezionale», il presentatore si era schermito: «No, guardi, io sono un sub normale». Bongiorno non era un intellettuale, non ha mai avuto presunzioni di sviluppo artistico di carriera, non ha mai detto nulla che passasse alla storia ma ha detto molte cose che sono passate benissimo sullo schermo all’ora dell’intrattenimento puro, che è poi una delle missioni di ogni televisione. Ho di lui un bel ricordo personale. Intervistai Mike Bongiorno per il nostro Controluce televisivo quando aveva 84 anni (sarebbe scomparso un anno più tardi ma allora era ancora attivo, in duetto con Fiorello) in Engadina dove teneva casa. Un signore. Faceva freddissimo, lui venne a prendermi la sera prima dell’intervista al mio albergo per andare alla cena che avevamo fissato, tutto bardato contro il gelo, e mi portò un suo berretto di pelo («Sa, se non si copre bene il capo lei mi prende un raffreddore di testa»). L’indomani realizzammo un breve filmato introduttivo all’intervista e lui, affermando di fare ogni giorno dieci chilometri di sci di fondo, volle farsi riprendere in movimento, indossando il pullover rosso di maestro onorario della Scuola svizzera di sci; in realtà fece soltanto pochi metri sugli sci incontro alla telecamera e subito si mise ad ansimare. Io temetti un malore ma lui esclamò respirando forte: «Benvenuta TV svizzera, uff, uff, sa che vengo dall’aver fatto dieci chilometri di fondo, uff uff?». Impareggiabile: aveva finto il fiatone per simulare l’impresa. Un grande professionista. Era nato un secolo fa, aveva esclamato migliaia di volte «Allegria!», che fu il suo motto per quell’Italia che era risorta dalle rovine e giungeva al benessere e alle illusioni dei consumi copiosi e dei cento canali televisivi.