Un ultimatum da Trump, ma Kiev non ci sta

Siamo all’ultimatum, o ricatto se preferite: o vi accontentate del patto che abbiamo definito per voi - senza di voi - oppure vi arrangiate. L’attitudine di Donald Trump e dei suoi uomini sul fronte diplomatico appare oggi come un mix di machismo, arroganza e fretta. La fretta di arrivare a un accordo più volte promesso, per giunta in tempi brevi, ma non ancora raggiunto. Anche perché, per quanto riguarda la guerra in Ucraina, parliamo di un conflitto che dura da oltre tre anni - senza contare i precedenti, tra Crimea e Donbass -, non di scaramucce. Trump si è inserito nella questione con passo da sceriffo, ma le 24 ore entro cui credeva di risolverla sono scadute da un pezzo. Il pressing appare quindi sterile, per quanto minaccioso. Ancora oggi, il vicepresidente americano JD Vance, dall’India, ha ribadito: «Abbiamo avanzato una proposta molto esplicita sia ai russi sia agli ucraini, ed è ora che dicano di sì, altrimenti gli Stati Uniti abbandoneranno questo processo». Ed è stato altrettanto esplicito quando ha aggiunto che, tanto Mosca, quanto Kiev, devono prepararsi a uno scambio di territori. Tradotto: Kiev deve prepararsi ad abbandonare quelli già finiti in mano russa.
Prima il cessate il fuoco
Volodymyr Zelensky non vuole cedere, non può cedere. Non è una questione di orgoglio. «Non c’è niente di cui parlare. Questo (riferendosi peraltro alla sola Crimea, ndr) viola la nostra Costituzione. Questo è il nostro territorio, il territorio del popolo ucraino», ha detto Zelensky ai media martedì. Come sottolineato dal Kyiv Independent, il presidente ucraino ha avvertito che qualsiasi discussione sulla Crimea rischia di spostare i negoziati «verso un quadro dettato dal Cremlino». Ha affermato che tali proposte rientrano direttamente nel «gioco del presidente russo Vladimir Putin». Zelensky ha detto: «Non appena inizieranno i colloqui sulla Crimea e sui nostri territori sovrani, i negoziati entreranno nel format voluto dalla Russia, ovvero prolungare la guerra». Una posizione ribadita anche da Yulia Svyrydenko, vicepremier, la quale oggi su X ha scritto: «L’Ucraina è pronta a negoziare, ma non ad arrendersi». Lo stesso Zelensky, non escludendo nulla sulla forma di un eventuale accordo futuro, su X ha garantito che il primo obiettivo è «fermare le uccisioni». E poi ha messo gli Stati Uniti di fronte alle proprie responsabilità, alle proprie parole: «Insistiamo su un cessate il fuoco immediato, completo e senza condizioni. Questa era la proposta avanzata dagli Stati Uniti l’11 marzo».
Il sostegno di Londra e Parigi
L’intesa tra Stati Uniti e Ucraina non è mai scontata, non lo è più - da quando la Casa Bianca ha cambiato inquilino -, ma oggi il Washington Post avanzava addirittura l’ipotesi di una Washington furiosa di fronte alla riluttanza di Kiev nell’accettare ogni condizione dettatale, in particolare quelle riguardanti le concessioni territoriali. Per questo motivo, infatti, sarebbe saltato il vertice previsto a Londra. Una fonte anonima avrebbe rivelato questi aspetti direttamente al Post, che infatti riferisce di un «momento di rabbia» della Casa Bianca. Gli europei hanno quindi declassato il vertice che avrebbe dovuto tenersi tra i Paesi dell’E3 (Regno Unito, Francia, Germania), Ucraina e Stati Uniti. Stati Uniti che dapprima hanno annunciato il ritiro del loro segretario di Stato, Marco Rubio, poi quello dell’emissario Steve Witkoff. Lo stesso Rubio ha rilanciato il proprio interesse con un post su X che sa quasi di scherno: «Non vedo l’ora di dare seguito alle discussioni in corso a Londra e di riprogrammare il mio viaggio nel Regno Unito nei prossimi mesi». L’imbarazzo a Londra è stato espresso, invece, con equilibrio. Un portavoce del primo ministro Keir Starmer ha infatti ribadito: «Noi sosteniamo gli sforzi condotti dagli Stati Uniti per mettere fine alla guerra in modo duraturo. Ma pensiamo che, in fin dei conti, spetti all’Ucraina decidere del proprio futuro». Insomma, l’Europa continua a parlare di «pace giusta e duratura», di «invasione illegale di Putin» e di autodeterminazione di Kiev. Conferme sono giunte anche dall’Eliseo: «Il rispetto dell’integrità territoriale e della vocazione europea dell’Ucraina sono esigenze molto forti degli europei». Parole contrapposte rispetto a quelle di Trump, che questa sera su Truth ha attaccato nuovamente Zelensky, definendolo «un uomo senza carte da giocare». «Sono dichiarazioni incendiarie come quelle di Zelensky a rendere così difficile risolvere questa guerra. La situazione per l’Ucraina è disastrosa: può ottenere la pace o può combattere per altri tre anni prima di perdere l’intero Paese».
Mosca favorita
La Russia rifiuta di leggere le parole di Vance come un ultimatum e gongola di fronte alle «posizioni lontane» di Ucraina e Stati Uniti. Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, ha ripetuto di essere sempre in contatto con Washington, ma non con Kiev o con l’Europa. Ha anche sottolineato come Mosca sia ancora contraria a una presenza militare occidentale sulla linea del confine. Ma da quanto trapelato, sembrerebbe che nel piano dettato dalla Casa Bianca a Zelensky figuri anche l’astensione da parte dell’Ucraina da qualsiasi volontà di entrare nella NATO. Insomma, congelare l’attuale linea di conflitto a favore della Russia e allontanare ulteriormente Kiev dalla NATO. E Vance ha il coraggio di chiamarlo accordo.
Tutte le promesse vuote di Trump
«Grandi e bellissimi», «big and beautiful». Donald Trump aveva promesso simili accordi ancora prima di entrare in carica. E poi ha proseguito. Lo ricorda, direttamente nel titolo - e poi naturalmente nel suo reportage -, il nuovo corrispondente del New York Times alla Casa Bianca, Tyler Pager. Il quale prosegue: «Finora, gli obiettivi di molti negoziati del presidente Trump non sono stati realizzati, neppure quelli che lui stesso aveva detto sarebbero stati raggiunti nel giro di pochi giorni o settimane». Il riferimento all’Ucraina è chiaro. Ma si possono fare anche altri esempi, a cominciare dal Medio Oriente. Gli attacchi verbali del presidente americano a Hamas per ora non hanno avuto il benché minimo effetto pratico. E lo stesso si potrebbe dire dei dazi, utilizzati in fondo come una minaccia al mondo tutto, ma in parte rientrati. Il portavoce della Casa Bianca, Taylor Rogers, come altri uomini del presidente, si schiera a mo’ di scudo e spiega, citato dallo stesso Pager: «Qualunque sia il suo compito, il presidente Trump otterrà sempre l’accordo migliore per il popolo americano. In meno di cento giorni ha livellato il campo di gioco per i nostri imprenditori, ci ha avvicinato alla pace a Gaza e in Ucraina, ha inondato gli Stati Uniti di impegni di investimento storici, ha restituito ostaggi americani e ha ritenuto le università responsabili di aver fomentato l’antisemitismo». E poi il capolavoro: «Non esiste negoziazione troppo ardua per il presidente Trump, che continua a dimostrare che i suoi detrattori si sbagliano». Tra quelli che Rogers considera detrattori, anche l’opposizione democratica. Il New York Times cita anche quanto dichiarato da Wendy R. Sherman, vicesegretaria di Stato durante l’amministrazione Biden, ovvero: «Lo stile negoziale di Trump deriva dal suo lavoro di promotore immobiliare. Se un accordo immobiliare non funziona, si passa semplicemente a quello successivo o si ricorre al tribunale. Nelle questioni diplomatiche, si fa qualcosa per il bene pubblico. La posta in gioco è diversa. Può fare la differenza tra guerra e pace, tra libertà accademica e censura, tra stato di diritto e autoritarismo». Il quotidiano newyorchese sta registrando ogni dichiarazione e ogni mossa di Donald Trump nei suoi primi cento giorni da presidente «bis». La lista di attacchi, accuse, richieste è già lunghissima. Nulla di «big», però, e nulla di «beautiful», almeno fino a questo 24 aprile.