L’intervista

Una cintura verde per salvare il Sahara, ma basterà?

Con il dottor Alisher Mirzabaev dell’Università di Bonn affrontiamo il tema della desertificazione e dell’impatto di questo fenomeno su economia e sviluppo sociale
© Great Green Wall
Marcello Pelizzari
18.11.2021 17:23

L’idea, forse, era e rimane troppo ambiziosa. Una cintura di alberi per «contenere» il deserto del Sahara. Da una parte all’altra, dal Senegal fino al Gibuti. Per «contenere» e, soprattutto, far respirare un intero continente. Dare e ridare vita, insomma. Il progetto, nato anni e anni fa, si chiama Great Green Wall. La grande muraglia verde. Le cose, però, non stanno prendendo la piega giusta. Soprattutto se, come sostenevano i promotori, l’obiettivo era concludere entro il 2030. In realtà, l’avanzamento procede a singhiozzo. O, se preferite ,a velocità differenti a seconda del Paese. «La cintura è completa al 15%» si legge su Internet. Secondo l’Associated Press, tuttavia, quella percentuale va ridotta al 4%. Di più, svariati alberi già piantati nel frattempo sarebbero morti mentre per vedere davvero la luce in fondo al tunnel servirebbero qualcosa come 43 miliardi di dollari. L’impresa, beh, da ambiziosa diventa titanica. Per capirne di più ci siamo rivolti al dottor Alisher Mirzabaev, ricercatore presso il Center for Development Research dell’Università di Bonn, in Germania.

Dottor Mirzabaev, secondo uno studio il Sahara nell’ultimo secolo è cresciuto, in dimensioni, del 10%. Il fenomeno della desertificazione è causato (anche) dalle troppe emissioni di gas serra, emissioni legate ai Paesi occidentali o, se vogliamo, ricchi. Quanto è importante, dunque, un progetto come la grande muraglia verde?
«L’espansione del Sahara è stata affrontata in un paper di Thomas e Nigam del 2018. Al momento, il tema è dibattuto. Per dire: il deserto si sta espandendo o no? E ancora: quello che vediamo è dovuto a cambiamenti ciclici nelle precipitazioni o, appunto, c’è dell’altro? Personalmente, sono contento che questo progetto si sia allontanato dall’idea originale per abbracciare un carattere più ampio. Dalla ‘‘semplice’’ creazione di una striscia verde, fatta di alberi, a una gestione sostenibile del territorio e dello sviluppo locale. Creare solo una cintura senza preoccuparsi di come gestire l’area, infatti, potrebbe non essere efficace. Il ripristino degli ecosistemi degradati deve avvenire nell’intero Sahel. E, come detto, deve essere collegato allo sviluppo locale, ai mezzi di sussitenza e alla creazione di posti di lavoro».

Sappiamo che la desertificazione ha un impatto importante nella vita delle persone e nella disponibilità di risorse. Esistono indicatori che correlano il livello di desertificazione allo sviluppo umano e sociale? Girando la questione, quanto soffrono le popolazioni dell’area sahariana?
«La desertificazione e, in seconda battuta, il degrado della terra hanno un forte impatto sui mezzi di sussistenza della popolazione del Sahel. Anche perché la dipendenza dall’agricoltura, in quell’area, è molto forte in termini di redditi e lavoro. Penso tanto alle colture quanto al bestiame. Il citato degrado della terra riduce la produttività agricola, che a sua volta riduce i redditi e peggiora l’insicurezza alimentare. Detto ciò, sebbene il degrado della terra contribuisca alla povertà e all’insicurezza alimentare nella regione, non è l’unico fattore in gioco. Bisogna infatti considerare pure fattori istituzionali, economici e sociali. I conflitti, per dirne uno. Ergo, il progetto della cintura – da solo – non può risolvere tutti i problemi della regione».

L’analisi che abbiamo svolto presso il nostro istituto dimostra chiaramente quanto i benefici derivanti dal ripristino della terra superino i costi. Certo, una parte importante dei benefici proviene dai cosiddetti servizi ecosistemici non di mercato. Cito la cattura del carbonio

La grande cintura verde presenta costi, agli occhi di un cittadino comune, fuori dal comune. Come convincere l’opinione pubblica che i benefici sono di gran lunga superiori?
«L’analisi che abbiamo svolto presso il nostro istituto dimostra chiaramente quanto i benefici derivanti dal ripristino della terra superino i costi. Certo, una parte importante dei benefici proviene dai cosiddetti servizi ecosistemici non di mercato. Cito la cattura del carbonio. Il problema, per certi versi, è proprio questo: i proprietari privati non vengono pagati per questo tipo di servizi. La creazione e l’istituzione di un sistema di scambio del carbonio, nell’attività di restauro dei terreni, potrebbe fornire stimoli ulteriori. In generale, serve tempo per ripristinare terre e aumentare la produzione di cibo, foraggio, mangimi e legname da vendere sui mercati. Ai privati dovrebbero essere concessi finanziamenti a lungo termine. E qui, ancora, entriamo in problemi che esulano dal semplice degrado del terreno».

Secondo le stime ufficiali, il grado di completezza della cintura varia fra il 15 e il 18%. Si può già stilare un bilancio a livello di benefici per la popolazione?
«Le stime, come detto, sono differenti. Per la bontà del progetto, sarebbe essenziale avere dati precisi e chiari. Sapere, insomma, quanti e quali obiettivi pianificati sono già stati completati. Per dire: è necessario sapere quanti ettari di alberi sono già stati piantati ma anche quanti arbusti sono sopravvissuti dopo due o cinque anni. Alcuni studi, ad ogni modo, ci dicono che l’iniziativa ha già avuto un impatto positivo sulla vita delle persone. Il quadro, però, non è ancora completamente chiaro e, come spiegavo, completo. Sono necessari più studi, che esaminino altresì le ripercussioni sociali ed economiche del programma. Prendendo in esame i redditi, il grado di povertà e il tasso di occupazione».

Spesso tendiamo a parlare di Africa con lenti e giudizi tipicamente occidentali. E consideriamo i problemi dell’Africa un’esclusiva di quel continente. Ma la desertificazione è causata altresì dalle emissioni dei Paesi ricchi. Come la mettiamo?
«Sì, la desertificazione è il risultato di una combinazione di fattori climatici e umani. Un concetto chiave, salito alla ribalta negli ultimi anni, è quello di surriscaldamento globale. O, meglio, di come i mutamenti climatici che coinvolgono l’intero pianeta abbiano un impatto e un’influenza soprattutto a livello regionale. Pensiamo, nel caso dell’Africa, alla siccità. Da questo punto di vista, beh, le emissioni di gas serra possono peggiorare i processi di desertificazione in atto nel Sahel. Allo stesso tempo, però, non dobbiamo dimenticare quanto ci siamo detti. E cioè che l’uso della terra da parte dell’uomo, in quelle aree, ha avuto un peso probabilmente ancora maggiore. Burrel, in un articolo del 2020 pubblicato su Nature, ha svolto un ottimo esercizio in questo senso, facendo una scissione fra cause umane e climatiche».

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