Il reportage

Una ferita che resta aperta ma Bondo non ha più paura

A cinque anni dalla tragedia che colpì la Bregaglia in paese la gente ricorda ancora quei momenti con grande apprensione, ma nessuno ha intenzione di lasciare la valle e le proprie abitazioni - Il sindaco Fernando Giovanoli: «La fine dei lavori è attesa nel 2025»
Prisca Dindo
22.08.2022 06:00

Le ferite non sono solo quelle che si vedono lassù sulla parete nord del Pizzo Cengalo. Le percepisci nel cuore della gente. Sono passati cinque anni dalla frana, ma le macerie che devastarono la valle della Bondasca e una frazione di Bondo segnano ancora i ricordi di coloro che, in quell’agosto funereo, vissero la tragedia.

«Mai avrei immaginato...»

Come Reto Salis, che incontriamo nella sua casa di Stampa. È sua la voce in sottofondo del video girato alle 9.15 del 23 agosto 2017. «Guarda! Guarda!», lo si sente gridare. Il suo telefonino inquadra la cima della montagna che all’improvviso esplode. Immagini talmente drammatiche che fanno subito il giro del mondo.

Ora Reto lavora per gli impianti di risalita del Maloja, ma cinque anni fa gestiva con sua moglie il ristorante della Capanna di Sciova affacciato sul Pizzo Cengalo. È stato lui che quella maledetta mattina servì l’ultima colazione agli otto escursionisti che poco dopo sarebbero stati travolti. Quattro germanici, due austriaci e due svizzeri, i cui corpi non sono mai stati ritrovati. «Avevano cenato da noi – ricorda Salis – e quella mattina hanno voluto la colazione mezz’ora dopo gli altri clienti; volevano prendersela con comodo perché poi sarebbero tornati a casa». Abbassa gli occhi e prosegue, quasi in un sussurro: «Se avessero fatto colazione insieme agli altri sarebbero ancora vivi!».

Verso le 8 il gruppo saluta Reto e imbocca il sentiero per Bondo. Un’ora e un quarto dopo precipita la frana. «Mai avrei immaginato che nessuno li avrebbe più visti vivi; - rammenta desolato - . Sono stati travolti a un passo dalla salvezza, perché ci vuole un’ora per raggiungere il paese e quindi dovevano essere vicini alle loro automobili quando il fango li ha seppelliti». Nel salutarci, Reto ci concede un’ultima confidenza: «Pensi che dallo choc passai i primi tre mesi dopo la tragedia con febbre e brividi; ancora oggi mi capita di sognare la polvere, il rumore infernale, la terra che trema…. È un incubo ricorrente».

Un odore indimenticabile

Quella mattina oltre tre milioni di metri cubi di granito, legname e fango si staccano dalla cima del Pizzo Cengalo - che con i suoi 3.369 metri è tra le montagne più alte delle Alpi Retiche - e ruzzolano a valle. Ai primi segnali Sergio Engel, il comandante dei pompieri di Bregaglia, corre a evacuare le case più esposte al pericolo. Poi una enorme colata spazza via tre grosse cascine. «L’atmosfera era strana – racconta il comandante, allora ufficiale – in un primo momento dal paese non si vedeva quanto stava succedendo in alto; c’era soltanto uno strano vento che usciva dalla val Bondasca e un odore molto forte di terra bagnata che mai scorderò».

Il mare di detriti avanza inesorabile verso il fondovalle e tutto il villaggio deve essere evacuato. «I pompieri avevano il compito di bussare a ogni porta e io avevo paura di dimenticare qualcuno». Il piano funzionò alla perfezione e gli abitanti del Comune furono sfollati mentre la frana mangiava il ponte sul fiume Bondasca.

Un film dell’orrore

In quel momento Anna Giacometti, sindaca del villaggio, si trovava nel suo Municipio, un edificio costruito sul promontorio che domina il paese. «Siccome era una magnifica giornata estiva avevo aperto le finestre sul fiume Bondasca», rammenta mentre ci accoglie nella sua casa di Stampa. «Dapprima sentii rumori terribili, poi vidi nubi di polvere arancione coprire il blu del cielo. Quando mi sporsi dalla finestra, l’atmosfera era surreale. Mentre correvo in paese per dire alla gente di scappare, pensavo di vivere in un film dell’orrore. Il fiume era già gonfio di detriti. Massi enormi di granito sembravano galleggiare leggeri come fuscelli. «Cercai di raggiungere più gente possibile ma poi, quando alcune pietre mi piovvero sulla testa, realizzai che quello non era un film, ma la realtà. Arrivò la grande colata e allora scappai con gli altri abitanti».

Una ferita profonda

La frana ha segnato la vita di Dina Wirz Giovanoli. L’artista turgoviese era a Bondo quando il Cengalo è franato. Ricorda con angoscia la tragedia. La chiamata della mamma «Dina devi scappare!»; il cielo maculato da una nuvola gialla. La fuga sull’alpe di Lizöl; il terrore che la montagna crolli di nuovo. «Non avrei mai pensato che questa ferita fosse così profonda», ci confida al telefono. «In questi cinque anni, ogni volta che finivo un’opera la guardavo e mi rendevo conto che in un modo o nell’altro aveva a che fare con la frana del 2017». Cengalo 17″ è il nome dell’esposizione delle sue ultime opere presso la chiesa di Nossa Dona a Promontogno.

«Noi restiamo qui»

Oggi sulla poltrona di sindaco non siede più Anna Giocometti, eletta in Consiglio nazionale, ma Fernando Giovanoli. Bondo è tutto un brulichio di gru ed escavatori. Il sindaco ci racconta che «entro la fine del 2025 saranno costruite dighe di protezione, ponti e nuove strade, per una spesa di quarantadue milioni di franchi; due terzi a carico di Confederazione e Cantone, mentre il resto lo coprono Comune e privati donatori. Con questo ritmo finiremo i lavori nei tempi previsti». Spino, Sottoponte, Bondo e Promontogno saranno al riparo, ma la sicurezza assoluta non esiste. Pur essendo monitorata, la montagna rimane la montagna. Tuttavia nessuno vuole abbandonare la Bregaglia. «Noi non lasceremo le nostre case, se la montagna vuole venire giù, venga giù». taglia corto Donato Salis, il gerente dell’unica osteria di Bondo.

I tempi della giustizia

L’ultimo capitolo aperto è quello penale. I parenti degli escursionisti dispersi si sono opposti all’archiviazione del procedimento deciso dai tribunali grigionesi. Secondo loro, non furono adottate le necessarie precauzioni di sicurezza. Il Tribunale federale ha accolto il loro ricorso e ha ordinato la riapertura dell’inchiesta. «Spero soltanto – così conclude il sindaco Giovanoli – che i tempi della giustizia non siano troppo lunghi. I tempi lunghi non aiutano nessuno. Né i parenti in cerca di verità, né chi è indagato».