Lugano

Una vita spezzata e le domande che restano

Sta facendo discutere la storia del ragazzo afghano di vent'anni che martedì si è tolto la vita al centro asilanti di Cadro
Giuliano Gasperi
14.07.2023 10:33

Ha fatto calare un velo di tristezza e di domande la storia di Arash, il ragazzo afghano di vent’anni che martedì si è tolto la vita al centro asilanti di Cadro. Ogni suicidio lascia pensieri dolorosi a chi più o meno direttamente ne è toccato. Stavolta il tema ha assunto una dimensione pubblica perché la presa a carico di queste persone è un compito pubblico, quindi di tutti noi. Dicevamo delle domande. Ce ne poniamo una in particolare, senza voler entrare nelle pieghe di una storia che non conosciamo né dare giudizi morali su chiunque ne sia coinvolto: cosa si può fare di meglio nella cura dei giovani migranti particolarmente fragili dal punto di vista psicologico?

Il dibattito, ieri, è stato acceso da una nota dell’avvocato Immacolata Iglio Rezzonico. «Perché i minorenni non accompagnati vengono affidati a curatori che devono seguire almeno ottanta casi ciascuno senza poterlo effettivamente fare? E perché – ha aggiunto la legale – sono costretti a vivere rinchiusi in centri dove viene limitata la loro libertà di movimento ed azione?». Iglio Rezzonico ha poi voluto ricordare il giovane morto, di cui ha conosciuto la storia tramite altre persone a lui vicine. «Per la sua età, Arash aveva già dovuto vivere esperienze che nemmeno noi adulti occidentali ci sogneremmo di vivere. Era fuggito perché ancora sperava di poter cambiare la sua vita, e aveva solo bisogno di essere accolto come essere umano, non certo sballottandolo da un centro ad un altro e lasciandolo di fatto solo. La sua vita era appesa ad un filo». Che si è spezzato. L’epilogo ha creato sconforto anche fra gli addetti della Croce Rossa del Sottoceneri, che gestisce i centri collettivi di accoglienza come quello di Cadro su mandato del Cantone. «Seguiamo ogni persona accolta a livello globale grazie a personale qualificato: operatori sociali, personale sanitario, psicologi, formatori e molti altri» ci fa sapere l’ente. «E nella presa a carico quotidiana si lavora anche con la rete presente sul territorio, affinché le persone possano beneficiare di un sostegno concreto nella gestione delle tante fragilità che purtroppo spesso hanno». Come Arash e come un altro ragazzo, sempre afghano e anche lui ospite di un centro asilanti, che si era tolto la vita un anno fa. «Siamo affranti» scrive ancora la Croce Rossa. «Nel rispetto della persona deceduta, dei suoi conoscenti e dei suoi familiari, non riteniamo opportuno riferire elementi di dettaglio, anche perché le autorità stanno effettuando i dovuti accertamenti. Siamo vicini a tutti i suoi cari». Per ricordarlo è stata organizzata una fiaccolata: il ritrovo è previsto per domani alle 14 in Corso Elvezia 35 a Lugano.

Iniziativa ferma da due anni e mezzo

«Il caso di Arash non è isolato: ci sono stati altri due ragazzi, sempre afghani, che negli ultimi due anni si sono tolti la vita: uno ancora a Cadro e uno a Bellinzona» ci fa sapere l’avvocato Paolo Bernasconi, sperando che quanto accaduto porti la politica a prendere dei provvedimenti. Uno è stato proposto nel settembre 2019 come iniziativa parlamentare da Matteo Quadranti e cofirmatari: estendere il raggio d’azione della Commissione di sorveglianza sulle condizioni di detenzione. Non più solo nelle prigioni, ma anche nelle strutture «ad analoga residenza coatta a cui sono astrette le persone sottoposte alla legislazione sull’asilo». Persone controllate con una «vigilanza quotidiana da parte di enti privati (agenzie di sicurezza) che però non dispongono di competenze parificabili a quelle del personale di custodia delle strutture carcerarie cantonali». In parole povere, si tratterebbe di osservare con più occhi come si vive nei centri asilanti. Il Consiglio di Stato si è però detto contrario, soprattutto perché «l’esame delle condizioni di detenzione amministrativa viene già effettuato dalla la Commissione nazionale per la prevenzione della tortura, la quale esamina periodicamente la situazione delle persone private della libertà e ispeziona tutti i luoghi in cui queste si trovano o potrebbero trovarsi». Occorre quindi evitare «di creare doppioni» e «continuare a garantire l’applicazione, in tutta la Svizzera, di metodi e criteri d’esame uniformi e sanciti da esperti di privazione della libertà». Sono passati due anni e mezzo dalle osservazioni del Governo, ma sul tema il Gran Consiglio non ha ancora votato.