Uno straziante (ultimo) abbraccio prima di morire nel deserto

Sabbia arida. Un minuscolo cespuglio. Due corpi senza vita. Una donna e una bimba. Quest'ultima, con le treccine, rivolta verso l'adulta, quasi a stringerla in un abbraccio. L'ultimo, purtroppo. Anche se in quel momento loro non lo sapevano. L'immagine, diventata in poco tempo simbolo del dramma dei migranti subsahariani tra Libia e Tunisia, è stata scattata dal giornalista libico Ahmad Khalifa che lavora per Al Jazeera. In sette giorni è stata diffusa da diverse ong. «Una donna muore di sete nel deserto con il suo sogno irrealizzato di una vita migliore per sua figlia. Una bambina muore con un sogno mai nato. La politica europea uccide. Le autorità tunisine fanno soldi sugli africani», denuncia Refugees in Libya, sottolineando che questo è il risultato della politica del presidente tunisino Saied. «Insieme ad altre realtà della società civile tunisina e internazionale stiamo documentando da mesi la situazione, supportando le persone locali e in transito che si trovano a resistere a una situazione di razzismo di Stato e di gravissima crisi economico-politica», hanno spiegato a Repubblica gli attivisti di Mem.Med. «La repressione sociale, le violenze razziste, i respingimenti in mare e in terra, le morti e le scomparse dicono chiaramente che la Tunisia non è un Paese sicuro né per le persone migranti né per i suoi cittadini».
La situazione
Sono centinaia i migranti africani, tra cui donne incinte e bambini, che si trovano nella zona cuscinetto di Ras Jedir, tra la Libia e la Tunisia, dopo essere stati portati nella zona dalle autorità tunisine. I migranti non hanno acqua né cibo. «Non sappiamo dove ci troviamo. Stiamo soffrendo qui, senza cibo e acqua», ha detto un uomo all'AFP. «I libici non ci permettono di entrare nel loro territorio e i tunisini ci impediscono di tornare indietro. Siamo bloccati in mezzo a tutto questo. Per favore aiutateci! Oppure inviate una nave di soccorso». L'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) «sono profondamente preoccupati per la sicurezza e il benessere di centinaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Tunisia, che rimangono bloccati in condizioni terribili a seguito del loro trasferimento in aree remote e desolate vicino ai confini del Paese con la Libia e l'Algeria. Altri sono stati spinti oltre», si legge in un comunicato congiunto. «Molte di queste persone sono state sfollate da Sfax in seguito ai recenti disordini in città, mentre altre sono state trasferite da vari centri urbani in tutta la Tunisia». E ancora: «Sono bloccati nel deserto, affrontano il caldo estremo e senza accesso a riparo, cibo o acqua. C'è urgente bisogno di fornire assistenza umanitaria e salvavita mentre si trovano soluzioni urgenti e umane. Tragicamente, ci sono già segnalazioni di perdite di vite umane nel gruppo. Questa tragedia in atto deve finire. In queste circostanze, salvare vite umane deve essere la priorità e coloro che sono rimasti bloccati devono essere portati in salvo», continua la nota.
Le due organizzazioni «apprezzano il lavoro della Mezzaluna Rossa tunisina e libica nel fornire assistenza umanitaria» e sottolineano che «sono urgentemente necessari sforzi di ricerca e salvataggio per coloro che rimangono bloccati. Ciò include anche garantire che le persone con esigenze di protezione internazionale siano identificate e abbiano l'opportunità di chiedere asilo, e che i migranti vulnerabili, comprese le vittime della tratta e i minori non accompagnati, debbano essere indirizzati a servizi appropriati». Infine, «UNHCR e OIM invitano tutti i Paesi coinvolti a rispettare i propri obblighi legali internazionali nei confronti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo» e si dicono «pronti a sostenere le autorità per risolvere la situazione attuale in modo umano e di principio che rispetti i diritti di tutti».
Dall'inizio dell'anno al 20 luglio le autorità tunisine hanno recuperato al largo delle coste del Paese un totale di 901 corpi di migranti. Lo ha detto in Parlamento il ministro dell'Interno tunisino, Kamel Feki. «Le operazioni per contrastare il fenomeno delle migrazioni illegali via terra e via mare hanno mostrato un aumento del 244% dei migranti stranieri rispetto allo stesso periodo dello scorso anno», ha detto ancora il ministro, secondo il quale sono «decuplicate le operazioni di soccorso degli stranieri che hanno tentato di varcare le frontiere marittime e terrestri, in tutto 15.327».
Fati e Marie
Ma torniamo alla nostra foto. I due volti nella sabbia, divenuti simbolo della crisi umanitaria in corso sul confine fra Libia e Tunisia, hanno ora un nome e un'identità. Sono Fati (Matyla il vero nome) Dosso e la sua bambina, Marie. Provenivano dalla Costa D’Avorio e sono finite in Tunisia nella speranza di potere raggiungere l'Europa. La rete di Refugees in Libya ha trovato Pato, marito di Fati e padre di Marie: «Aveva chiesto loro di lasciarlo indietro, di provare a salvarsi perché lui non credeva di avere più forza di continuare ad avanzare nel deserto, dopo giorni passati a vagare senza acqua né cibo – hanno raccontato gli attivisti italiani a Repubblica –. Ma quando ha raggiunto la Libia, dopo essere stato soccorso da tre sconosciuti sudanesi , di Fati e Marie ha trovato solo le foto che le ritraevano quasi affondate tra la sabbia».
«Dormivano sempre in quella posizione», ha detto l'uomo. «Speravo che fossero solo stanche, di vederle arrivare qui prima o poi, ma non ci sono. Ero io quello destinato a morire, non loro». Insieme avevano affrontato le detenzioni, le violenze, i tentativi di attraversare il mare, i lager. Quattro volte avevano tentato la traversata, quattro volte erano stati intercettati e detenuti in Libia. Il 13 luglio, insieme a un’altra donna e tre uomini, hanno tentato la traversata del deserto. «Siamo arrivati in Tunisia venerdì mattina. Abbiamo cercato di attraversare il confine, ma la polizia ci ha catturato e picchiato, rimandandoci nel deserto». Senza cibo né acqua. E loro si sono rimessi in viaggio.
Le immagini del dolore
I migranti, la guerra. Ogni evento (e periodo) viene descritto con foto che in breve tempo diventano «simbolo». Come quella di Alan (Aylan) Kurdi, il bambino siriano di tre anni la cui immagine, nel 2015, scioccò il mondo. Alan Kurdi, a faccia in giù nella sabbia. Un'immagine di morte: un bimbo di neppure tre anni con la maglietta rossa, i pantaloncini blu e le scarpe allacciate. Il piccolo siriano è annegato ed è stato ritrovato sulla spiaggia di Bodrum, paradiso turistico della Turchia. Simbolo della tragedia dei migranti che ha costretto le persone a guardare in faccia la tragedia. Simbolo della crisi migratoria in Europa. «La nostra scelta è stata quella di non voltare la testa dall'altra parte, ma di guardare in faccia alla realtà, per quanto cruda – scriveva otto anni fa l'allora direttore del Corriere del Ticino, Fabio Pontiggia –. La fotografia non urla: è serenamente muta. Ma proprio per questo ha un impatto emotivo dirompente». «La fotografia è più reale della realtà: è la documentazione di ciò che ci circonda, la memoria storica dell’umanità. Queste immagini testimoniano il nostro comportamento e i corpi di bambini sulle spiagge ne sono una conseguenza diretta, il risultato di come ci comportiamo», ci ha detto due anni fa il fotografo Oliviero Toscani, interpellato sull'argomento.