USA-Cina: il disaccoppiamento impossibile che agita l’economia globale

Se l’economia americana è davvero «malata», in cima alla lista delle patologie da curare c’è sicuramente il rapporto con la Cina. Del resto Trump, sin dal suo primo mandato, non ha mai fatto mistero di vedere nel Dragone il nemico giurato da tenere a distanza. I dazi del 34% applicati alle importazioni cinesi (portando l’aliquota complessiva al 54%) sono solo l’ultima mossa di una strategia che, almeno sulla carta, dovrebbe ridurre l’interdipendenza tra le due economie, meglio ancora: disaccoppiarle.
Dal canto suo, Pechino ha risposto con la stessa moneta: dazi al 34% sulle merci americane.Gli effetti sui mercati asiatici sono stati deleteri, tanto che ieri il Quotidiano del popolo – l’organo del Partito Comunista cinese – ha commentato con un lungo editoriale la situazione economica del Paese. I dazi di Trump colpiranno duro, ma l’economia del Dragone è pronta reggere l’urto. Pechino, dopo aver rassicurato gli investitori stranieri, ha poi precisato di «non volere un disaccoppiamento completo con l’economia americana», e che «non sta chiudendo la porta ai negoziati». Un’apertura a cui Trump, tuttavia, non ha voluto dar seguito: «Tutti i colloqui sui dazi con la Cina saranno interrotti subito», ha scritto sul suo social Truth, minacciando la Cina con un ulteriore 50% a partire dal 9 aprile, nel caso in cui Pechino vorrà mantenere le sue misure ritorsive.
Minacce a parte, la parola chiave resta «disaccoppiamento», ovvero il tentativo di separare l’economia americana da quella cinese, riducendo la dipendenza commerciale reciproca. Pandemia e guerra hanno dimostrato che le risorse e le capacità produttive rappresentano un vantaggio strategico irrinunciabile.
«L’interdipendenza tra i due colossi sta diminuendo. L’export cinese verso l’America è sceso dal 19,2% nel 2018 al 14,7% nel 2024», commenta al Corriere del Ticino Alessia Amighini, esperta di Cina e professoressa di economia all’Università del Piemonte Orientale. «Le previsioni sull’interscambio commerciale per i prossimi dieci anni indicano un calo progressivo. In particolare, i flussi bilaterali tra Stati Uniti e Cina, insieme a quelli tra Unione Europea e Cina, sono destinati a diminuire più degli altri. Questa tendenza suggerisce che le grandi potenze stanno cercando di disaccoppiarsi economicamente dalla Cina, anche se il processo è estremamente complesso».
Un esempio emblematico è la filiera dei microchip. Ogni fase della produzione richiede investimenti ingenti e sfrutta economie di scala. Il che – spiega l’esperta – ha portato a una divisione globale del lavoro: gli Stati Uniti eccellono nella progettazione, la Cina gestisce parte della manifattura, mentre l’Olanda fornisce macchinari avanzatissimi per la stampa dei semiconduttori. «È una filiera nata sull’interdipendenza. Per questo, un disaccoppiamento completo è quasi impossibile». In definitiva, secondo Amighini, nonostante le tensioni, le due economie saranno costrette a dialogare. Certo, i termini dell’equazione potranno cambiare, ma la sostanza non verrà stravolta: «Per esempio, la scorsa settimana, Pechino ha deciso di limitare l’esportazione di terre rare verso gli USA, come misura di ritorsione nei confronti dei dazi di Trump».
Leva negoziale
Non potendo disaccoppiare le due economie, quale sarà allora la strategia di Trump? Più in generale, secondo Amighini, l’amministrazione USA punta a usare i dazi come leva negoziale: imporli per costringere ogni singolo Stato a sedersi al tavolo e accettare condizioni più favorevoli per gli Stati Uniti. «Possiamo immaginare che Trump voglia un’apertura maggiore del mercato cinese a vantaggio esclusivo degli USA. Trump insiste spesso sulla necessità di riportare la manifattura negli Stati Uniti. Tuttavia, si tratta di dichiarazioni fortemente retoriche, pensate per un uso interno. «La macchina del consenso si alimenta con messaggi semplici, diretti, costruiti su misura per intercettare un certo tipo di elettorato», spiega. In questo senso, più che una politica industriale concreta, si tratta di una narrazione mirata a ottenere consenso.
Contro i nuovi monopoli
Detto ciò, la Cina resta il nemico giurato di Trump. Lo era già durante il primo mandato, quando - da solo - ribadiva la necessità di rispondere all’offensiva Made in China 2025, il piano politico con cui Pechino voleva raggiungere l’indipendenza tecnologica dall’Occidente in cinque anni. «Made in China è stata una vera e propria dichiarazione di guerra commerciale. Essendo l’economia globale costruita su una fitta trama di interdipendenze, il piano cinese è stato visto come un tentativo di modificare gli equilibri mondiali», spiega Amighini. Si capirà, allora, la sterzata impressa da Trump a inizio mandato. Sterzata con cui il presidente USA, secondo Amighini, ha voluto correggere una situazione innescata dalla stessa Cina: «In pochi anni, Pechino ha raggiunto una situazione di monopolio su diversi ambiti economici, sostituendosi progressivamente a molti fornitori». Il problema, prosegue Amighini, non risiede tanto nella posizione dominante in sé, quanto nel fatto che la Cina non è un mercato libero. «Questo significa che può decidere, per motivi politici o strategici, di limitare o bloccare l’esportazione di beni essenziali. In un contesto del genere, dipendere da un partner che non è “amico” rappresenta un rischio troppo elevato, soprattutto per filiere industriali critiche». Al netto delle premesse, secondo l’esperta la natura della contesa oggi è cambiata: «Se inizialmente Trump voleva mettere la Cina al suo posto riducendo il debito americano, oggi l’intenzione dichiarata è di andare in escalation. Questa politica, però, non sappiamo dove può condurre: il tonfo dei mercati finanziari è la prova di una fiducia che vacilla: un mondo diviso che non sa dove andare non è di buon auspicio per nessuno».