Personaggi

«Vi racconto mio padre, Giulio Andreotti»

Il figlio Stefano ne tratteggia le caratteristiche mentre esce un libro di Massimo Franco sulla sua figura che sarà presentato lunedì all’USI
Giulio Andreotti ha segnato la storia politica dell’Italia dal dopoguerra alla fine del XX secolo. (foto Ansa)
Stefano Piazza
30.03.2019 06:00

Fosse ancora vivo, Giulio Andreotti, avrebbe cent’anni. Un anniversario sottolineato dall’uscita di un libro sulla sua figura scritto da Massimo Franco (vedi correlati) che verrà presentato lunedì 1. Aprile alle 18 all’Aula Magna dell’USI di Lugano dallo stesso Franco. Per l’occasione vi proponiamo anche un ritratto più «privato» dello statista italiano scomparso nel 2013, quello consegnatoci dalle parole del figlio Stefano, sessantasei anni anni, terzo di quattro fratelli, laureato in giurisprudenza, un figlio e quarant’anni in Siemens.

Stefano Andreotti, se dovesse raccontare il Giulio Andreotti «privato» da dove comincerebbe? Qual è stato l’episodio che più ricorda con nostalgia? E com’era Giulio Andreotti a casa?

«Comincerei dalla nostalgia del rito dei pranzi del sabato e della domenica a casa di corso Vittorio Emanuele dai miei genitori, al quale partecipavamo inderogabilmente tutti noi fratelli quando eravamo a Roma e al quale si aggiunsero nel tempo i nipoti. Si parlava, si raccontava, si scherzava un po’ su tutto quanto accaduto in settimana in famiglia e nel mondo, si mangiava troppo. Anche in casa e in quei momenti mio padre faceva uso dell’ironia con tante battute che erano parte del suo modo di esprimersi anche nella vita pubblica. Mio padre è stato un ottimo marito, un grande padre e nonno. Non ha potuto certo lasciare agli affetti familiari tanto tempo; lo dedicava quasi tutto al lavoro, compresi sabati e buona parte delle domeniche. Quello che non dava in quantità, lo ha però recuperato con la qualità del rapporto. Ci ha sempre seguito con attenzione ed amore: quando eravamo piccoli lasciava a mia madre il compito dell’educazione quotidiana e scolastica, lui non ci rimproverava mai e rispettava le nostre scelte. Naturalmente quando non condivideva quanto facevamo, lo faceva presente, ma ci ha sempre lasciato liberi anche di sbagliare».

Amava molto il cinema: sin da giovane ha sempre avuto passione per il cinema, in particolare la nutriva per i film con Totò

Nel libro di Massimo Franco si parla tra le molte cose dell’amore di suo padre per il cinema e per Cinecittà, che tra l’altro contribuì a far nascere. Questo è un aspetto poco conosciuto di suo padre: è vero che ebbe dei problemi con le gerarchie vaticane che non vedevano di buon occhio questa sua passione?

«Sin da giovane ha sempre avuto passione per il cinema, in particolare la nutriva per i film con Totò. Nel primo dopoguerra come sottosegretario alla Presidenza del Governo De Gasperi si occupò della rinascita del cinema italiano con il rilancio di Cinecittà, allora occupata da famiglie di sfollati di guerra, e con l’adozione delle leggi che permisero il grande boom degli anni Cinquanta e Sessanta. I produttori dei film americani dovevano reinvestire parte dei ricavi girando film nei nostri studi e le sale cinematografiche dovevano dedicare una percentuale delle ore di programmazione alle pellicole italiane. Con la Chiesa non ci fu nessun problema particolare, basti pensare che una percentuale notevole delle sale allora esistenti erano cinema parrocchiali. C’era indubbiamente il discorso della censura: su alcuni argomenti da parte della Chiesa esisteva una particolare sensibilità, dobbiamo però tornare a quei tempi e non possiamo ragionare con i metri di giudizio validi oggi; comunque anche la censura di allora non impedì di certo la grande libertà di espressione dimostrata dalle pellicole allora prodotte. Anche successivamente ha sempre conservato questa passione; la domenica pomeriggio alternava quando poteva la visione di uno o due film, che un caro amico, Italo Gemini, presidente dell’Agis, gli faceva proiettare nella saletta dell’albergo Nazionale, con le partite a carte, scopone, tressette, gin rummy e burraco che sempre lo hanno divertito».

E come viveva questa cosa sua madre Livia Danese?

«Condivideva con lui la passione; qualche chiacchiera di troppo la infastidì ai tempi di una foto pubblicata su una rivista che lo ritraeva a braccetto con Anna Magnani; secondo quella che è stata credo più che altro una nostra leggenda familiare mia madre lo redarguì affibbiandogli un pizzicotto al ritorno dal festival del cinema».

Che tipo di rapporto li legava?

«Il loro matrimonio li ha tenuti insieme per sessantotto anni in una straordinaria unione; erano legatissimi, non credo di ricordare mai fra loro un vero litigio. Mio padre ha sempre conosciuto in nostra madre quelle doti che le permisero di essere il suo grande punto di riferimento per tutta la vita».

Voi figli, e lei in particolare, vi siete impegnati molto negli ultimi anni affinché la memoria di vostro padre non venisse di continuo sporcata con insinuazioni e ricostruzioni di ogni tipo. Perché secondo lei ad un certo punto, si messa in moto questa operazione che non si è fermata nemmeno con la sua morte? A chi ha giovato? E quando capiste che stava per arrivare la bufera su di lui?

«All’inizio mio padre ci scherzava su, dicendo che dopo le guerre puniche gli era stato addebitato tutto quanto avvenuto in Italia. Dopo la sua morte nel 2013 è calato su mio padre un grande silenzio e, le poche volte che se ne è parlato, è stato tutt’al più per utilizzare qualcuna delle sue battute o per ricordarlo in termini non troppo lusinghieri. Con i miei fratelli, in particolare con mia sorella Serena, che come me vive a Roma e tra l’altro cura la catalogazione dell’enorme archivio da mio padre donato quando ancora era in vita all’Istituto Sturzo, cerchiamo, nei limiti delle nostre possibilità, di far conoscere chi è stato realmente nostro padre e di riportare la memoria che ne viene tramandata alla reale dimensione che secondo noi ha avuto la sua figura - come d’altra parte possono testimoniare tutti coloro che lo hanno realmente conosciuto a fondo - depurata da tanti luoghi comuni. Molti di questi risalgono o si sono accentuati, era anche convinzione di mio padre, ai tempi della vera rivoluzione avvenuta in Italia negli anni Novanta, provocata da qualcuno che per arrivare ad un governo mai raggiunto con le elezioni (e che per ironia della sorte non sarebbe neanche riuscito ad ottenere ), scatenò l’ondata giudiziaria che spazzò via i democristiani, i socialisti e gli altri partiti di governo».

Quando le vicende giudiziarie iniziarono, il colpo fu tremendo, ma poi con una grande forza d’animo, che scaturiva dalla sicurezza di avere la coscienza a posto

Cos’è successo?

«Mio padre non aveva mai ricoperto incarichi di partito e di conseguenza non era attaccabile per le tangenti, doveva essere colpito in altro modo. Andava secondo lui considerato anche qualche zampino internazionale, che non aveva perdonato alcune decisioni prese da chi rappresentava i governi italiani in troppa autonomia. Credo che il tutto non abbia però giovato più di tanto a coloro che ancora oggi non si rassegnano ad accettare il magro risultato processuale raggiunto dalla valanga di fango rovesciatagli addosso con le vicende giudiziarie che lo hanno riguardato».

Come furono gli ultimi anni di Giulio Andreotti e come spiegava in famiglia quanto gli stava accadendo?

«Quando le vicende giudiziarie iniziarono, il colpo fu tremendo, ma poi con una grande forza d’animo, che scaturiva dalla sicurezza di avere la coscienza a posto, da una grande fede cristiana, dagli attestati di stima ricevuti (mi piace ricordare fra tanti quelli di Madre Teresa di Calcutta e di Giovanni Paolo II), dalla vicinanza di noi tutti in famiglia, con la quale ha condiviso ogni minimo dettaglio, ne è uscito fuori ed ha trascorso i tanti anni che ancora lo separarono dalla morte con grande serenità».

La fede calcistica è stata l’unica cosa su cui non sono andato d’accordo con mio padre lui tifava per la Roma, io per la Lazio

Che statista è stato Giulio Andreotti e qual è il patrimonio politico che ha lasciato al vostro paese?

«È una domanda a cui non è facile rispondere per me che ne sono figlio, posso dire che stato un uomo dello Stato, che nello Stato e per lo Stato ha vissuto, anteponendo sempre e comunque il rispetto delle Istituzioni a qualsiasi altra considerazione. Credeva fortemente nell’importanza del Parlamento, nelle alleanze internazionali dell’Italia e nell’Europa, magari in una forma un po’ diversa da quella che si è poi realizzata, nel ruolo che l’Italia dovrebbe svolgere per ragioni storiche e geografiche nel contribuire alla pace nel mondo ed in particolare a quella fra i paesi del Mediterraneo».

Qual è la battuta che più le piace ricordare di suo padre?

«Il tempo è galantuomo, anche se talvolta cammina lentamente».

Suo padre era tifosissimo della Roma mentre lei è tifoso della Lazio, la passione calcistica era argomento di sfottò tra voi?

«La fede calcistica è stata l’unica cosa su cui non sono andato d’accordo con mio padre, ma ricordo con grande nostalgia quando qualche volta da piccolo sono andato a vedere con lui allo stadio o la Roma o la Lazio; al di là di qualche battuta non si è fra noi mai travalicato la misura».