«Vi spiego l’Italia percepita fuori dall’Italia»

Come viene narrata l’Italia fuori dai confini nazionali? E che cosa spinge i lettori stranieri ad avvicinarsi ai libri scritti e ai film prodotti al di là del confine? Il tema, quanto mai attuale soprattutto alle nostre latitudini, dove le critiche volte a frenare una deriva non rispettosa delle differenze linguistiche nazionali abbondano (e da italofoni ma anche non, ci sentiamo di dire: giustamente), è al centro del libro intitolato À l’italienne. Narrazioni dell’italianità dagli anni Ottanta ad oggi recentemente edito da Carocci e curato da Niccolò Scaffai e Nelly Valsangiacomo.

«Tutto nasce dal fatto di lavorare con testi sia letterari sia di documentazione storica che hanno a che fare con l’Italia percepita fuori dall’Italia, compreso il Paese in cui mi trovo a lavorare, ovvero la Svizzera», spiega Niccolò Scaffai, professore associato di Letteratura italiana moderna e contemporanea, Storia della critica letteraria e Letterature comparate all’Università di Losanna, dove dirige il Centre interdisciplinaire d’études des littératures (CIEL) e coordina, con la collega Nelly Valsangiacomo, il Polo di ricerca sull’italianità (RecIt), il contesto in cui nasce il volume. «Lo scopo è anche indagare che cosa sia l’italianità in senso ampio, al di là dei confini politici che racchiudono il Bel Paese. Il concetto di italianità su cui si innestano i saggi che compongono il volume, infatti, non è da intendere come un patrimonio culturale identificato con una nazione, bensì come un insieme di idee, valori, dati linguistici. Proprio per questo abbiamo pensato alla parola “narrazione”, che appare anche nel sottotitolo e che è un termine abusato, talvolta persino un po’ svalutato (pensiamo alla narrazione politica): avremmo potuto scegliere un altro termine, per esempio “rappresentazione”, ma questa parola ci sembrava andare in direzione di un’immagine fissa, non corrispondente all’italianità che percepivamo e sentivamo come una realtà più dinamica».



Luoghi comuni e non
Il concetto di italianità proposto dal volume di Scaffai (nella foto sopra) e Valsangiacomo, quindi, non si riferisce tanto al patrimonio di valori nazionali, ma va inteso come insieme di valori plurinazionali o sovranazionali. Un concetto ampio, quello di italianità, dietro al quale si può nascondere anche il tema dello stereotipo o perlomeno quello della banalizzazione, motivo per il quale è lecito chiedersi quanto gli autori che vengono letti all'estero oggi tendano a confermare questi stereotipi e quanto invece questi autori li smontino.
«Effettivamente la questione dello stereotipo è centrale e attraversa vari contenuti del libro», precisa ancora lo studioso e critico letterario. «Parlando più specificatamente della letteratura, direi che lo stereotipo è importantissimo, essendo il veicolo principale della trasmissione dell’italianità anche letteraria fuori d’Italia. I temi sono svariati: il paesaggio che è talmente forte da diventare personaggio, il legame con la famiglia e il tema del cibo. Molto pubblico straniero cerca proprio queste conferme, sia nei libri che nei film, a tal punto che anche alcuni autori non italiani quando parlano dell’Italia tendono a riproporre queste visioni stereotipate (penso per esempio ai romanzi di Donna Leon). Ma qui siamo ancora su un piano di cliché medio-basso».
Lo stereotipo, ad ogni modo, può avere anche un valore in un certo senso positivo. «Certo, nella misura in cui funziona come una chiave d’accesso aprendo la porta all’interesse verso l’italianità; poi sta all’abilità dello scrittore o della scrittrice partire da quegli stereotipi per proporre qualcosa di nuovo. È il caso, qualsiasi cosa se ne pensi, di Elena Ferrante, che sappiamo aver avuto un grosso successo».
Dentro e fuori degli stereotipi
«Se guardiamo ai successi italiani dagli anni Ottanta – continua Scaffai – ritroviamo effettivamente la forte tipicità, quindi lo stereotipo, un’Italia da cartolina e un’Italia neorealista. Ma non solo: hanno avuto molto successo fuori dal Paese anche opere con caratteristiche che si allontanano e di gran lunga da questa stereotipia, come per esempio i libri dell’ultimo Calvino e di Umberto Eco. Eppoi non possiamo non pensare al successo di Primo Levi negli Stati Uniti, il primo autore italiano tradotto in inglese in un’opera organica (ovvero dalla stessa casa editrice e da uno stesso team di traduttori, ndr)». Molto interessante, per quanto riguarda Primo Levi, l’aver agito all’interno della cosiddetta «holocaust literature» smontandone alcuni stereotipi. «In effetti a partire dagli anni Novanta si parla di americanizzazione della rappresentazione della Shoah, che tende a essere narrata attraverso schematizzazioni e semplificazioni. Levi è un antidoto da questo punto di vista, perché è l’autore che ha teorizzato la zona grigia, quell’area di mezzo in cui il concetto di vittima e carnefice, di colpevolezza e collaborazione sfumano. Se un autore come Levi diventa ancora più noto sulla scorta di nuove traduzioni e nuovi studi, non può che beneficiarne il modo in cui al di là dell’Oceano viene raccontata una vicenda così centrale e tragica della nostra storia».
Tipicità e sovranazionalità
Che cosa decreta, quindi, il successo di un’opera letteraria italiana all’estero? Esistono delle caratteristiche precise? Scaffai ritiene che il riproporre alcuni stereotipi giochi un ruolo importante in questo senso. «Io penso che una carta vincente sia proprio la tipicità, ovvero la capacità di rendere una realtà regionale, locale, fatta di piccoli borghi, piccoli centri, un luogo pre-moderno, se vogliamo. Penso alla stagione neorealista, ma anche ad autori diversi come Sciascia, fino a Camilleri. Anche il dato opposto, la sovranazionalità, può decretare il successo di un’opera: ci sono romanzi che, proprio per il loro corrispondere a canoni del romanzo di genere affermato in tutto il mondo, raccolgono riscontri editoriali. Un esempio? La coppia di scrittori Rita Monaldi e Francesco Sorti, che sono stati dapprima pubblicati da Mondadori, poi usciti dal catalogo, ma rientrati nel mercato editoriale italiano perché hanno avuto successo all’estero. Questi autori scrivono gialli storici e sono un po’ epigoni del giallo all’Umberto Eco, passando per la mediazione meno alta di Dan Brown, americano che però scrive libri ambientati in Italia». Ci sono infine penne in grado, secondo Niccolò Scaffai, di coniugare i tratti della tipicità a quelli della sovranazionalità: è il caso di Elena Ferrante e della sua tetralogia, lavoro sul quale, però, la critica italiana mostra scetticismo. «La critica letteraria italiana, che sia essa militante o accademica, ha un forte orientamento sull’originalità dello stile. Si tratta di valori fondamentali, che sono anche miei e che non metto certamente in discussione. Ritengo però che bisognerebbe allargare lo sguardo, perché anche la forma del contenuto è una questione stilistica. La domanda è: perché un romanzo funziona e uno no? Credo che occorra prendere in considerazione questo dato e cercare delle risposte».

ORAZIO MARTINETTI: IN TICINO SI PREFERISCE PARLARE DI IDENTITÀ,
UN CONCETTO PIÙ VAGO
Come viene percepita l’italianità nella Svizzera italiana? Cosa è cambiato rispetto al passato? Per rispondere a questi quesiti, abbiamo contattato lo storico Orazio Martinetti (nella foto Gonnella sopra).
Orazio Martinetti, oggi si sente parlare poco di italianità: perché?
«La parola “italianità” è caduta in disuso, si preferisce usare la parola “identità”, molto più vaga e soprattutto meno riconducibile ad una matrice precisa, che per noi latini italofoni è l’Italia, con la sua lingua, la sua cultura, i suoi costumi, il suo teatro, la sua musica. Oggi molti preferiscono ignorare questo passato, estirpare queste radici, che per il canton Ticino sono soprattutto lombarde. Il concetto di italianità va invece ripreso e rivalutato, non come una reliquia, ma come uno spazio mentale e materiale in cui riversare storia, cultura, letteratura, gastronomia, un particolare stile di vita».
È sempre stato così?
«Assolutamente no. L’italianità, per i nostri scrittori nati alla fine dell’Ottocento, era un patrimonio da difendere e da promuovere; fu il vessillo sotto il quale intellettuali come Francesco Chiesa e Carlo Salvioni combatterono fiere battaglie contro la germanizzazione. Il Ticino era in fondo nient’altro che “il ramoscello estremo della gran pianta italica”. Recidere questo ramo voleva dire precipitare nel vuoto e nell’anonimato, oppure rimanere sospesi senz’acqua su una parete rocciosa e infine morire d’inedia».
A suo avviso il razzismo e la xenofobia stanno aumentando?
«Le statistiche che registrano gli episodi di violenza e d’intolleranza dicono di sì. Il nostro Paese, intendo la Confederazione, non è immune da queste tossine, come provano le regolari inchieste promosse dalla Commissione federale contro il razzismo, i cui risultati sono pubblicati nel bollettino “Tangram”. Non pare però che abbiano superato il livello di guardia».
Parliamo degli anni Sessanta del Novecento. Un’epoca non proprio semplice per chi si spostava dal Belpaese alla Svizzera, in cerca di un lavoro e spesso con una famiglia da sfamare.
«C’era un’aria molto pesante, un’atmosfera cupa. In alcuni cantoni della Svizzera tedesca l’immigrato italiano era malvisto: non bisognava esporsi troppo, né parlare italiano ad alta voce. Uno degli esiti più perniciosi di quel clima fu la separazione che si venne a creare tra l’associazionismo ticinese e l’associazionismo italiano. Le Pro Ticino non volevano confondersi con i circoli degli immigrati; anzi, non perdevano occasione per affermare la loro fedeltà alla patria. Per fortuna questa lacerazione – durata anni – oggi è venuta parzialmente meno. Le manifestazioni comuni si sono moltiplicate. Ma le iniziative Schwarzenbach hanno lasciato tracce profonde, ferite nell’anima che non si dimenticano».
Molti autori svizzeri – Max Frisch, in primis – non sono stati insensibili verso queste ferite, ma anzi le hanno registrate nelle loro opere. Quali letture consiglierebbe oggi?
«La Svizzera – Paese multilingue e pluriconfessionale, in cui le minoranze si fanno sentire – è geneticamente refrattaria al razzismo; abbracciarlo significherebbe per la Confederazione rinnegare la sua stessa natura. Può però diventare autoritaria, consegnarsi alle forze più retrive, più ostili alle diversità. Questo pericolo fu ben presente, ha ragione, in scrittori come Frisch, Dürrenmatt, Bichsel; in cineasti come Alexander J. Seiler, Peter Ammann, Villi Hermann, Alvaro Bizzarri; in artisti come Mario Comensoli. La Svizzera dello svizzero di Peter Bichsel, un libriccino del 1970, è ancora oggi un valido antidoto all’omologazione. Da leggere e rileggere, soprattutto nelle scuole».