La testimonianza

Viaggio nell'inferno del sisma: «Vorresti aiutare tutti, ma non puoi»

Franz Martig, medico chirurgo che vive in Ticino e lavora a Berna, è una delle 87 persone della Catena di salvataggio svizzera che per sei giorni ha lavorato ininterrottamente in Turchia per estrarre persone dalle macerie
© DFAE
Jenny Covelli
16.02.2023 06:00

«Era l’Apocalisse». Non trova altre parole Franz Martig, medico chirurgo che vive in Ticino e lavora all’ospedale Tiefenau di Berna, per descrivere quello che ha visto in Turchia. Lui è una delle 87 persone della Catena di salvataggio svizzera volate nel Paese con otto cani da ricerca poche ore dopo i devastanti terremoti che il 6 febbraio hanno colpito il sud della Turchia e la Siria. Quando si verifica un terremoto ogni ora è importante per poter portare in salvo gli eventuali sopravvissuti, e la squadra di soccorso ha iniziato immediatamente il lavoro di ricerca e salvataggio. La Catena svizzera di salvataggio è riuscita a estrarre vive dalle macerie 11 persone, tra cui due mamme e due neonati, di sei e quattro mesi.

Martig, la mattina di lunedì 6 febbraio, è uscito di casa alle 7 del mattino per andare a sciare con un amico. Quel giorno non ha consultato i siti di notizie e, arrivato sulle piste, non sapeva ancora nulla di quanto accaduto. Alle 10.30, sulla neve, ha ricevuto la telefonata da parte del Corpo: «In serata partiamo per la Turchia. Dobbiamo estrarre dalle macerie i sopravvissuti. Sei disponibile a partire?». Il suo primo pensiero è stato che no, lui non poteva andare. Martedì avrebbe iniziato un turno di otto giorni in ospedale, per sostituire i colleghi in ferie per le vacanze scolastiche. Era già tutto organizzato e anche in famiglia aveva pianificato la settimana in modo che la moglie potesse occuparsi dei tre figli in sua assenza. Ma quella chiamata lo ha sconvolto, anche lui voleva fare la sua parte. «Ho attaccato e ho cominciato a riflettere – racconta -. Ho contattato i miei colleghi, che mi hanno dato disponibilità per la copertura dei turni. In meno di mezz’ora ho capito che sì, era possibile. Alle 19.30 ero all’aeroporto di Zurigo, pronto per partire con la squadra di soccorso».

Il dottor Franz Martig. © Handout Rettungskette
Il dottor Franz Martig. © Handout Rettungskette

«In Turchia è stato diverso»

Per il dottor Martig non era la prima volta. Medico chirurgo, ha lavorato anche nel servizio d’urgenza. Per due anni alla Croce Verde di Lugano e per un anno nella Rega. Tra il 2013 e il 2014 ha operato in Uganda, dove è nata la terza figlia. Lì ha gestito e diretto il reparto di Chirurgia di un ospedale di riferimento. «Quando sono tornato dall’Africa, un amico architetto di Berna che fa parte del Corpo svizzero di aiuto umanitario mi ha invitato a dare la mia disponibilità, perché ero idoneo. Nel 2015 sono stato mandato in Nepal, colpito il 25 aprile da una scossa di magnitudo 7.8 che ha mietuto quasi 9.000 vittime. È stato il mio primo intervento nel Corpo umanitario». Un intervento diverso da quello turco, più a lungo termine. Il Corpo svizzero di aiuto umanitario (CSA) è infatti un corpo di milizia chiamato a realizzare i progetti promossi dall’aiuto umanitario svizzero all’estero. Gli esperti sono assegnati a gruppi tecnici diversi e sono inviati sul campo a condurre azioni preventive o ad assistere le popolazioni bisognose durante e dopo conflitti e catastrofi. La Catena svizzera di salvataggio è, invece, l'elemento d'intervento immediato in caso di terremoto per il salvataggio delle vittime imprigionate. Ed è questo che Franz Martig è andato a fare in Turchia. «Sapevo che avrei dovuto occuparmi delle condizioni fisiche degli altri membri della squadra. E dei cani, anche se non sono un veterinario. Ma, soprattutto, di fornire i primissimi soccorsi ai sopravvissuti, sia quando si trovano ancora sotto le macerie e abbiamo un accesso fisico, sia quando riusciamo a estrarli vivi, prima di affidarli ai servizi di emergenza del posto».

Quando l’aereo con a bordo esperte ed esperti della Catena di salvataggio è atterrato ad Adana, la quinta città turca in termini di popolazione, non erano passate neppure 24 ore dal sisma. «Abbiamo dovuto aspettare per quattro ore in aeroporto l’arrivo delle auto che ci avrebbero portati sul luogo dell’azione. Nelle tre ore di tragitto successive, ci siamo ritrovati in mezzo al caos più totale. Le case non esistevano più, tutto era distrutto, c’era miseria ovunque. L’Apocalisse, letteralmente. Era completamente diverso da tutto quello che i miei occhi avevano visto fino a quel momento. Una volta raggiunta la provincia di Hatay, alle 9 del mattino di martedì, non c’era una sola abitazione intatta. Persone ferite per strada, fuochi improvvisati per scaldarsi, urla. Sembrava di essere stati catapultati nelle immagini del futuro apocalittico di Terminator. Ma quella era la realtà». Coordinati dalla protezione civile turca, l’AFAD, la Catena di salvataggio è stata divisa in due squadre, in modo da poter essere attiva 24 ore su 24. «Io ero nella prima squadra e siamo andati subito sulle macerie con i cani, anche se non avevamo ancora il materiale – prosegue nel racconto il dottor Martig -. Una fase molto difficile, perché arrivavano persone da tutte le parti a dirci “ho sentito voci qua, rumori là”. Ma non puoi essere fisicamente presente in dieci punti nello stesso momento. Il capo squadra ha preso in mano la situazione e ha deciso dove intervenire. Ma mentre agivamo, continuavano ad arrivare persone dalle altre strade. Momenti davvero pesanti, in cui vorresti aiutare tutti ma non puoi».

La prima persona estratta a mani nude

Le strade bloccate e il caos hanno complicato la logistica, e i tempi di attesa per l’arrivo del materiale si sono dilatati. «La prima signora salvata dalle macerie l’abbiamo estratta a mani nude. Aiutati dai suoi familiari, muniti di sega e martello. Eravamo sul posto da meno di trenta minuti. Un enorme successo, che ci ha motivati. Un’ora dopo eravamo nella stessa situazione, ancora senza materiale, ma la persona è morta mentre tentavamo di tirarla fuori da sotto i detriti».

Franz Martig è un chirurgo. Ha lavorato in situazioni di urgenza, ha operato in Africa. «Ho visto tantissime cose nel corso della mia vita professionale. Ma in Turchia ho vissuto qualcosa di completamente diverso. Un vortice di emozioni, come sulle montagne russe. Si passava dalle persone estratte vive dopo ore sotto le macerie, a quelle che ti morivano tra le mani. C’erano corpi dappertutto. Poi momenti di gioia, di speranza. Il numero di emozioni vissute e la loro durata e intensità erano incredibili. Mi sono alzato presto, lunedì mattina, per andare a sciare. Alle 21 dello stesso giorno ero a bordo dell’aereo che mi avrebbe portato in Turchia. Ho lavorato senza sosta fino alla mezzanotte di martedì. Ho operato per 72 ore di seguito senza praticamente dormire». Per il nostro interlocutore è difficile indicare un momento unico che l’ha particolarmente segnato. «Ovviamente, uno dei più felici è quando abbiamo salvato il bimbo di 4 mesi e la sua mamma. Un altro particolarmente toccante riguarda un ragazzo di 15 anni. Per salvargli la vita abbiamo dovuto mettere in atto misure mediche estreme. C’è voluto uno sforzo esasperato per liberarlo e, una volta stabilizzato, lo abbiamo messo sull’ambulanza che dopo tre ore di strada lo avrebbe consegnato all’ospedale di Adana. Prima di partire per il rientro, siamo andati a trovarlo. È stato bellissimo constatare che le sue condizioni erano migliorate».

Dal terremoto, è trascorsa ormai più di una settimana. Martedì il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha parlato di oltre 8 mila persone salvate. Le speranze di trovare ancora qualcuno vivo si sono affievolite quasi completamente. Ma alcuni «miracoli», a oltre 200 ore dal sisma, sono avvenuti. Com’è possibile sopravvivere per così tante ore sotto le macerie? «Me lo sono chiesto anche io molte volte – ammette Martig -. Sono letteralmente miracoli. Una chiara spiegazione non ce l’ho. Posso solo dire che il freddo, in certi casi, “aiuta”. Se fossimo in estate, sarebbe stato impossibile senza acqua. Con il freddo, il metabolismo del corpo umano rallenta, sprecando meno energia. E sulle macerie si sudava, la massa di detriti aveva creato una sorta di “effetto igloo”. Quando abbiamo salvato il bebé, dopo 70 ore, aveva la pelle rosa, piangeva con le lacrime, era sveglio e stava relativamente bene. Probabilmente la mamma è riuscita ad allattarlo, nonostante non abbia potuto idratarsi. La resilienza in quei momenti è grandissima. E anche la volontà ha un impatto davvero significativo, nel bene e nel male. Mi sono posto molte domande i quei tragici momenti, anche quasi filosofiche. “Com’è possibile sopravvivere in queste condizioni? E, d’altro canto, perché dopo ore di lavoro, quando mancava pochissimo a rivedere la luce, quella persona è morta? Perché proprio in quel momento, all’ultimo secondo?”».

Lo sfogo, tra le lacrime

Quello che ha vissuto in Turchia ha toccato profondamente Franz Martig e gli altri membri della Catena di salvataggio. «Non riesco ancora a inquadrarlo completamente, forse mi manca ancora la “giusta distanza”. Abbiamo condiviso le emozioni, il vissuto collettivo. Ci siamo aiutati, supportati. Abbiamo parlato delle nostre paure. Quando lunedì 13 siamo tornati in Svizzera, dopo quasi una settimana di operazioni ininterrotte, siamo stati accolti a Zurigo come eroi. Eravamo in uno stato di totale euforia. Nell’hangar, ad attendermi, c’erano anche mia moglie e miei figli, arrivati dal Ticino per abbracciarmi. Non penso esista un momento di felicità più grande di quello. Quando mi sono ritrovato solo con lei, a raccontarle tutto, è come se un po’ mi fosse caduto tutto addosso. Sono fortunato, perché a lei posso dire cose che forse altri non vorrebbero neppure sentire. E questo mi aiuta molto. Così come piangere è sicuramente una valvola di sfogo. Ho pianto anche tra le macerie, nei rari momenti solo con me stesso».

Sabato 11 febbraio è iniziata la seconda fase dell’aiuto d’emergenza con l’invio nella provincia di Hatay della squadra di pronto intervento del Corpo svizzero di aiuto umanitario, che si concentrerà sull’aiuto alla sopravvivenza delle persone colpite. C’è un grande bisogno di aiuti umanitari come ripari adeguati per l’inverno, prodotti per l’igiene, assistenza medica e verifiche statiche degli edifici rimasti in piedi, in vista di un loro eventuale riutilizzo. Inoltre, il 13 febbraio un team della Direzione dello sviluppo e della cooperazione con personale specializzato svizzero è partito da Damasco alla volta di Aleppo; ha il compito di condurre un’analisi della situazione e di avviare azioni umanitarie, anche in collaborazione con i suoi partner sul posto. Finora la Svizzera ha contribuito con 7 milioni di franchi all’operazione di emergenza per la Turchia e la Siria. La Catena della Solidarietà ha raccolto oltre 10 milioni di franchi. «La solidarietà è immensa – conclude Martig -. Il lavoro proseguirà nelle prossime settimane, mesi, anni. Io ho avuto il supporto della mia famiglia e dei miei colleghi, che hanno accorciato le ferie per sostituirmi in ospedale. Ho fatto la mia parte sul posto e so che continueremo ad aiutare le persone colpite».

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