Viaggio tra i «cittadini di serie B», dove dilagano malavita e illegalità
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«Vieni a vedere. L’auto era parcheggiata qui nel viale. Dove ora vedi le macchie nere sul pavimento. L’hanno incendiata. Poteva succedere una strage, non lontano ci sono le bombole del gas». Tareq Saleh vive a Nazaret. Come tutte le città a maggioranza araba del nord di Israele, anche il luogo che vide, secondo il Vangelo, i primi anni di vita di Gesù, è interessato da una ondata di violenza criminale senza precedenti.
Dall’inizio dell’anno, sono 158 le vittime di questa criminalità. Nello stesso periodo sono state 176 le vittime del conflitto israelo-palestinese. Un vero e proprio bollettino di guerra che arriva dalle città a maggioranza araba, principalmente in Galilea o nel Golan. Non lo vuole dire apertamente, ma Tareq sa perché gli hanno incendiato l’auto. È il primo avvertimento: non ha restituito per intero la rata del prestito che la famiglia locale di malavitosi gli ha fatto.
Guerra interna, tra fazioni criminali arabe nelle città, che sta assumendo i contorni di un problema molto serio. Il numero di omicidi è in aumento ogni anno. Secondo le statistiche della polizia, nel 2018, nella comunità araba sono state uccise 74 persone. Erano 94 nel 2019, 109 nel 2020 e 126 nel 2021. Le vittime sono scese a 116 nel 2022 e oggi sono arrivate a 158, mettendo il 2023 sulla buona strada per superare le 200. Diverse le cause. La metà di tutte le famiglie arabe sono considerate povere e quasi due terzi dei bambini arabi vivono sotto la soglia di povertà. La disoccupazione è alta per i giovani: un quarto dei maschi e un terzo delle donne non lavorano né studiano, fornendo manovalanza alla criminalità. La popolazione di queste zone è in buona parte organizzata in clan familiari che lottano tra di loro per il controllo delle attività illecite, soprattutto droga e prostituzione. La scorsa settimana, in un solo giorno si erano contate sette vittime in diverse città.
Una comunità giovane
Abu Snan, 15 mila anime arabe, 50 chilometri a nord ovest da Nazaret, 12 da San Giovanni d’Acri (Akko), la roccaforte dei crociati, altra città a maggioranza araba. Qui martedì della scorsa settimana sono state uccise quattro persone, tra le quali un candidato sindaco. Una vera e propria esecuzione di stampo mafioso. Anche Abu Snan è una storica città crociata. I resti della chiesa bizantina, alcune cisterne e mura raccontano una storia antica. Il piccolo ristorante di shawarma Fawzi, dista pochi chilometri dalla chiesa ortodossa di San Giorgio. La strada è un coacervo di iscrizioni arabe ed ebraiche. Il villaggio è importante per i drusi, che hanno qui un Khalwat o luogo di preghiera, molto frequentato, perché fondato da un famoso sceicco.
All’esterno di Fawzi, Youssef sta addentando il suo shawarma. «Quello che è successo - dice - è incredibile. La verità è che noi siamo cittadini di serie B. Nessuno ci considera. Sulla carta abbiamo il passaporto israeliano, ma non abbiamo gli stessi diritti. Non sono riuscito a chiedere un mutuo per la casa. Ho dovuto chiedere soldi ai cugini. Il governo lo ha detto chiaro, noi non esistiamo. Neanche i nostri politici eletti in parlamento ci aiutano. Qui c’è uno Stato nello Stato».
Una delle tredici leggi fondamentali di Israele, definisce questo lo «Stato ebraico», di fatto rendendo quasi stranieri i non ebrei che da un punto di vista etnico sono arabi, da un punto di vista religioso musulmani, cristiani e drusi. Questo comporta ad esempio che per loro non ci sia l’obbligo del servizio militare. Non è un’agevolazione: l’esclusione comporta la mancanza di aiuti per l’università e per il lavoro. Senza contare che agli arabi spesso vengono precluse le possibilità di richiedere mutui e prestiti, da qui il ricorso all’usura. Tra l’altro la comunità araba di Israele è composta soprattutto da giovani, con il 30% della sua popolazione che ha un’età compresa tra i 18 e i 23 anni. Questi hanno molti meno benefici e possibilità rispetto ai cittadini ebrei della stessa età. Secondo gli ultimi dati ufficiali, la popolazione araba di Israele è stimata in 2.048 milioni, che costituisce il 21% della popolazione del Paese, che conta in totale 9,7 milioni di persone.
«Io riesco solo a lavorare a giornata - dice Hamza, 29 anni - nei campi qui ad Abu Snan o con i turisti ad Akko. Eppure ho studiato, ma per noi non c’è niente. Sarebbe più facile lavorare per l’altro Stato, almeno guadagnerei e mi rispetterebbero».
Soluzioni inefficaci
Secondo Abraham Initiatives, una ONG che si occupa del fenomeno, circa il 75% degli omicidi proviene dalla criminalità organizzata, mentre il 15% è attribuibile a faide tribali, femminicidi che coinvolgono membri della famiglia e il resto ad attività criminali in generale. La situazione è molto tesa, leader locali incolpano la polizia israeliana, ritenuta inadeguata a bloccare le potenti organizzazioni criminali operanti in zona. Gli agenti sono accusati di ignorare del tutto queste violenze, lasciando spazio a una giustizia fai da te, disinteressandosi dell’escalation di violenza soprattutto perché riguarda la comunità araba, seppur israeliana.
Il ministro della sicurezza, l’estremista di destra e colono Itmar Ben Gvir, non ha mancato di far sentire la sua voce sull’argomento. «Il vero problema - ha detto - è che la criminalità araba può contaminare anche la società ebraica», marcando ancora di più il confine fra israeliani arabi ed ebrei. «Ognuna di queste vittime - spiegano da Abraham Initiatives - è il risultato di una criminalità dilagante che prolifera in assenza dello Stato. L’atteggiamento di Ben Gvir è un grave problema, non vede la tutela della vita dei cittadini palestinesi di Israele come una sua missione, non è una priorità. Declama soluzioni populistiche da favola, si esonera dalle responsabilità e, padrone dell’illegalità, aliena la polizia quando chiede ai cittadini di portare armi personali».
Il premier Netanyahu, che ha tenuto nei giorni scorsi una riunione d’emergenza sull’argomento - mentre il ministro dell’Economia Smootrich ha sbloccato un piano di aiuti di 50 milioni di dollari alle comunità arabe d’Israele -, ha informato anche lo Shin Bet, i servizi interni, della questione. «Non la Guardia Nazionale - continuano dalla ONG - né gli arresti amministrativi e lo Shin Bet funzioneranno come soluzioni. Il primo passo che Netanyahu deve compiere è nominare un responsabile per gestire questa questione. Ogni giorno in cui Ben Gvir rimane al suo posto è un giorno in cui la nostra sicurezza personale è compromessa».