Vivere fra la gente ma sentirsi soli

Sentirsi soli in una città che negli anni – grazie alle aggregazioni – ha moltiplicato i suoi abitanti. Può sembrare un paradosso, eppure fra le vie di Lugano si nasconde anche questa realtà. Persone anziane, giovani che si sono smarriti, adulti reduci da un divorzio. La disoccupazione, una malattia. Basta poco, spesso un evento doloroso, per farsi prendere dalla solitudine, perdere i contatti. Anche fra la gente, anche all’interno di palazzi popolosi. «Il problema dell’isolamento sociale, a mio modo di vedere, è un problema della società, di modi di vita», dice Lorenzo Quadri, titolare del Dipartimento formazione, socialità e sostegno. «È vero, Lugano negli hanni ha perso qualche luogo di aggregazione. Ed è una città caratterizzata da una certa dimensione e da una sensibile mobilità della sua popolazione. Molta gente si sposta, soprattutto all’interno. Questo porta a delle difficoltà nel creare rapporti di vicinato. Parliamo di una realtà urbana, eppure il fenomeno non lo conosciamo solo noi. È generalizzato».
Le iniziative
Quadri smette per una volta i panni del politico per calarsi in quelli dell’osservatore privilegiato, del capo Dicastero, aiutandoci a comprendere più da vicino il fenomeno e cosa faccia il Municipio per prevenire certe situazioni. «Come Città cerchiamo di promuovere l’aggregazione sociale», spiega. «Ad esempio a Molino Nuovo e a Breganzona portiamo avanti l’esperienza del ‘‘caffè quartiere’’, un progetto di aggregazione per coinvolgere la popolazione su temi che concernono il quartiere. Sono momenti che funzionano. E comunque sul territorio ci sono tantissime associazioni che propongono incontri di vario tipo. Talmente tante che è difficile riuscire a concedere spazi a tutte. Per questo vogliamo creare le cosiddette case di quartiere. E poi c’è il volontariato, sempre ben radicato. Ecco, Lugano per aiutare le persone a stare insieme può fungere da facilitatore. Anche se il fenomeno della frammentazione della società in atto da anni in tutto il mondo è difficile da arginare. L’ente pubblico non può fermare la costituzione di famiglie monoparentali oppure l’allungamento dell’aspettativa di vita della popolazione».

Decisioni prese lontano
Più abitanti, più solitudine. «Un grosso centro è più spersonalizzato, sì», rileva Quadri. «La gente va e viene, i rapporti stabili sono complicati da mantenere e ci sono molte nazionalità e culture diverse. Stare insieme è per forza più difficile. Trovo comunque che nei comuni periferici, come la Val Colla, ci sia ancora un’anima di paese, dove tutti si conoscono e c’è maggior attaccamento al territorio». Per aiutare chi sta ai margini, chi è solo, Lugano fa parecchio. «La Città creò un Dicastero quartieri (ora ufficio quartieri, ndr) già ai tempi della prima aggregazione, nei primi anni Duemila», spiega Quadri. Significa che c’era già la consapevolezza che il territorio andava aggregato. Gli ex comuni diventati quartieri dovevano e devono venire coinvolti nella vita cittadina. È un processo lento, di identificazione. La politica centralizzata e le decisioni prese lontano dalle periferie? In teoria potrebbe condurre a una perdita dello spirito di una comunità, sì. Ma nei fatti in molti paesi prima delle aggregazioni non c’era più vita politica, nessuno era disposto a mettersi a disposizione per la cosa pubblica».
Fra Martino Dotta: «In crescita i residenti»
«Quello che ho notato al centro Bethlehem negli ultimi due anni è l’aumento del numero di persone residenti che vengono per il pranzo» spiega Fra Martino Dotta, il coordinatore della Mensa sociale di Lugano. «Spesso sono persone sole che arrivano da noi per consumare un pasto in compagnia. Si avverte il bisogno di socializzare, di cercare un po’ di calore». Al centro accedono le persone più disparate. Con storie molto diverse: c’è chi ha un vissuto fatto di droga, alcol, ma anche uomini e donne reduci da un divorzio. «Il fatto di avere uno spazio disponibile e aperto a tutti, è molto apprezzato» rileva Fra Martino. «La maggior parte dei nostri ospiti è in età attiva sul piano lavorativo. Infatti, sono molte le persone alla ricerca di un impiego che frequentano la mensa. I numeri? Accogliamo una media di 30-35 persone sole al giorno».
Il filosofo Madera: "Oggi è più difficile trovare delle risposte ai propri interrogativi"
Romano Madera, filosofo, psicanalista, ha fondato Philo, importante luogo milanese di pensiero. A lui chiediamo dove nasca il moderno bisogno di luoghi specifici in cui potersi raccontare agli altri. «Oggi è più difficile trovare risposte ai propri interrogativi più profondi nelle tradizionali agenzie di senso, che via via hanno perso la loro credibilità. Ma questa è una difficoltà che ha in sé una grande potenzialità: possiamo chiederci, individualmente, quale strada prendere. Ovunque ci giriamo c’è un’opportunità. Le terapie sono molteplici, chiunque promette benessere. In questa sorta di città mercato, ecco appunto che siamo disorientati. E allora bisogna fare in modo di iniziare interrogando la propria esperienza. Come diceva Martin Buber, bisogna cominciare da sé ma non finire con sé. Dobbiamo interrogare le nostre esperienze e poi trasferirle a qualcun altro». Trovare una via. E la famiglia, e la società? «Nelle famiglie si è sempre parlato pochissimo, inutile fare confronti con il passato. All’epoca semmai non c’era questo bisogno di raccontarsi. Quando andavo in chiesa a confessarmi, quel racconto conteneva il mio racconto, ci credevo. Tutti anelli che davano un orientamento alla vita. Ora bisogna trovare altre vie. Che poi in passato non era per tutti il diritto di raccontarsi, è stata una conquista sociale e politica, legata al riconoscere l’esistenza dell’individuo». I social sono una via? «Il modo in cui per lo più vengono usati non rappresenta uno scambio comunicativo, ma danno la possibilità di scegliere i propri interlocutori: una individualizzazione, non un individualismo. Non vanno contro il rapporto faccia a faccia, possono anzi facilitarlo». E il ruolo delle città, della politica? «Bisogna prima di tutto capire cosa già esiste. E poi aiutare chi si impegna in questo senso, sviluppando sinergie e collegamenti, offrendo spazi reali e ideali di incontro sul lungo periodo».
La Chiesa evangelica battista
La Chiesa evangelica battista di Lugano darà vita a partire da domani (ore 20.00, in via Dufour 13) a un ciclo di quattro incontri intitolati «Raccontarsi e ascoltare i racconti degli altri». Un’iniziativa nata dalla spinta degli stessi membri della chiesa, i quali hanno evidenziato come in città si patisca solitudine e mancanza di luoghi di autentico confronto. Angelo Reginato, il pastore: «Le chiese protestanti fanno dello studio biblico uno dei cardini dell’esistenza della chiesa. Tempo fa abbiamo affrontato la questione del fine-vita. Ma durante l’incontro quel filone è stato presto accantonato, i presenti hanno invece iniziato a raccontarsi, a raccontare avvenimenti delicati, privati, esperienze personali. Allora, ci siamo interrogati sulla mancanza - in città - di spazi per questo tipo di comunicazione. Ci sono esperienze di vita che necessitano di un ambiente non giudicante, di libertà».
Portavoce di una sensazione
Lugano città di solitudine? «Non mi sento di esprimere un giudizio» prosegue il pastore. «Io sono solo portavoce di una sensazione che parte dalle persone che ho incontrato. Sul territorio ci sono spazi di incontro legati a iniziative, feste, manifestazioni culturali. Ma nessuno spazio in cui sia possibile raccontarsi in maniera davvero libera, non giudicante, dove non si ragioni a partire da una istanza sociale, etica o identitaria. Servirebbe appunto un luogo dove si possa parlare di ciò che accade nella vita, in particolare di quegli eventi che a volte uno affronta davvero da solo. C’è una solitudine che non è dovuta al fatto che la città non si interessi del cittadino. No. Il problema è che a volte certi eventi che ci capitano nella vita chiedono spazi adeguati. E il tessuto pubblico potrebbe farsi carico di questa richiesta».
Altre forme di comunicazione
Cosa significa «abitare una città»? «Significa rendere accessibili strumenti tecnologici, come il Wi-Fi, alfabetizzare gli anziani non in grado di gestire le nuove forme di comunicazione» spiega Angelo Reginato. «Ma anche inventarsi delle forme di ritrovo, dare alle persone delle occasioni di ritrovo faccia a faccia, senza il giudizio della società».