Il ritratto

Vladimir Putin, 25 anni di potere con l’ossessione dell’Occidente

l presidente russo si insediò al Cremlino il 31 dicembre 1999 su indicazione di Borís Él’cin - Da allora è stato eletto quattro volte - Sul suo futuro peseranno inevitabilmente le scelte di Stati Uniti e Cina - Le riflessioni e le analisi degli storici Mara Morini e Andrea Romano
Vladimir Putin è al potere in Russia da 25 anni. Entrò al Cremlino ad interim il 31 dicembre 1999 subentrando a Él’cin. © KEYSTONE/EPA PHOTO/ITAR-TASS/STR
Dario Campione
31.12.2024 06:00

Venerdì 31 dicembre 1999. Mentre i moderni millenaristi si interrogano angosciati su una possibile, «nuova» fine del mondo, stavolta legata al caos che l’imminente triplo zero del calendario potrebbe ingenerare nelle memorie dei computer, a Mosca il presidente Borís Él’cin annuncia in diretta Tv le sue dimissioni, tre mesi prima della naturale scadenza del mandato. Stanco, visibilmente confuso, quasi certamente preda ormai sconfitta dell’alcol, Él’cin nomina successore ad interim il primo ministro Vladimir Putin, 48 anni, fino a poco tempo prima oscuro componente di seconda fila dello staff del Cremlino. Un uomo sul futuro del quale nessuno, in quel momento, avrebbe probabilmente scommesso un copeco.

La storia è andata diversamente. Dopo un quarto di secolo, Putin è ancora saldamente insediato tra le mura della cittadella fortificata che domina la collina Borovickij, sulla riva sinistra della Moscova. Da leader provvisorio di una democrazia fragile si è trasformato in dittatore e, soprattutto, in uno degli avversari più irriducibili dell’Occidente.

© KEYSTONE/EPA PHOTO/ITAR-TASS/STR
© KEYSTONE/EPA PHOTO/ITAR-TASS/STR

Lo scambio

Ma chi è, davvero, Vladimir Putin? Com’è stato possibile, per lui, conquistare il potere? In che modo lo ha mantenuto? E che cosa è davvero disposto a fare, in futuro, per non abdicare al suo ruolo?

«Putin approda al potere nella Russia di fine anni ’90, un Paese governato da Él’cin, personaggio debole, con problemi di salute, il quale aveva sempre avuto a cuore più il futuro personale che non quello della nazione - dice al Corriere del Ticino Mara Morini, storica dell’Università di Genova, associata di Politiche dell’Europa dell’Est e autrice, nel 2023, di La svolta della Russia. Allineamenti internazionali e politiche revisioniste nel XXI secolo (Carocci) - L’FSB, il servizio di intelligence erede del KGB, approfittò della debolezza di Él’cin per sostenere un proprio candidato, un uomo dell’apparato di sicurezza che potesse garantire a Él’cin un’uscita dignitosa e senza alcun problema penale per lui e per la sua famiglia. Putin, quindi, è il frutto di un accordo, di uno scambio tra Él’cin e gli apparati di sicurezza. Tutti gli studiosi convengono su questo punto, che anche Aleksej Navalny racconta nel suo ultimo libro (Patriot, Mondadori). È cosa nota, non una suggestione: è un dato di fatto. La politica, d’altronde, è questo: negoziazione, scambio. In quel momento, la fazione dell’apparato di sicurezza era molto più forte rispetto alla fazione dei progressisti, di coloro che volevano far transitare la Russia verso un sistema democratico».

Avendo trascorso tre anni almeno nell’amministrazione presidenziale, Putin sale al potere «evidentemente con le idee molto chiare - dice ancora Morini - e subito attua alcune riforme istituzionali per avere più forza all’interno del Parlamento con un proprio partito, Russia Unita. Anche se la Costituzione vieta al presidente di essere membro di un partito, lui sa che occorre governare le dinamiche parlamentari. Allo stesso modo, è consapevole che bisogna controllare i territori ed evitare conflitti con le Camere federali, com’era successo a Él’cin. Accentra quindi il potere che il predecessore aveva lasciato ai governatori per farsi rieleggere nel 1996. Sigla poi un accordo con gli oligarchi dicendo loro: “Continuate pure ad arricchirvi, ma non occupatevi di politica. Dovete però anche cominciare a pagare le tasse, perché abbiamo bisogno di fare cassa”».

Putin ha anche la fortuna di incrociare quella che, nel 2013, diventerà la governatrice della Banca centrale russa, Ël’vira Nabiullina, «che già in occasione delle prime sanzioni dopo l’annessione della Crimea, nel 2014, riesce a evitare un tracollo economico, e lo stesso fa in questi anni dopo l’aggressione in Ucraina. Nabiullina - dice Morini - riesce a far convenire a Putin l’idea che la Russia non può solo basarsi sulle proprie risorse energetiche, ma deve attuare politiche economiche diversificate che consentano anche di bypassare eventuali crolli del rublo a causa del prezzo del petrolio». È sempre Ël’vira Nabiullina a «creare due fondi di riserva di emergenza da cui Putin potrà attingere in caso di bisogno: succede con la pandemia di Covid e, ovviamente, durante l’aggressione all’Ucraina».

I «due» presidenti

Il bilancio di questi 25 anni di potere, dice al Corriere del Ticino Andrea Romano, associato di Storia della Russia all’Università di Roma Tor Vergata e studioso dello stalinismo e del nazionalismo russo, argomento su cui uscirà presto per i tipi del Mulino un nuovo studio dopo quello pubblicato con Bruno Mondadori alcuni anni fa, deve tenere conto «di un prima e di un dopo. Prima del 2012 e dopo il 2012, quando Putin torna al Cremlino dopo i primi due mandati e lo scambio temporaneo di ruoli con il primo ministro Dmitrij Medvedev. Ecco: il 2012 è l’anno della svolta antioccidentale di Putin. Comincia, in quel momento, la stagione di confronto estremo, conflittuale con l’Occidente. Una stagione che non è mai finita e di cui la guerra contro l’Ucraina è la fase più radicale. Perché questa svolta? Le ragioni sono molte. Certamente, tra le principali c’è da una parte il timore di Putin, anche di fronte a quanto era accaduto ai confini della Federazione russa, di vedere indebolito il proprio potere; dall’altra, anche la presa d’atto del fatto di non essere riuscito a trasformare la Russia in un partner in grado di cambiare gli equilibri all’interno della comunità internazionale».

Nella prima fase del putinismo, tra il 2000-2012, il presidente russo «aveva tentato in qualche modo di modificare, senza successo, gli equilibri interni al contesto multilaterale in senso favorevole alla Russia - dice Romano - Dal 2012 in avanti, si pone invece in aperta contrapposizione con il multilateralismo (alleanza di più Paesi che perseguono un obiettivo comune, secondo la definizione del politologo americano Miles Kahler, ndr), di fatto dominato dall’Occidente e dagli Stati Uniti».

In chiave interna, sottolinea Romano, la svolta del 2012 «ha portato alla repressione e alle campagne contro le minoranze sessuali ed etniche e contro gli immigrati; ma anche al tentativo, secondo me fallito, di costruire una nuova egemonia militare sul cosiddetto mondo russo. Questa idea del Ruskiy Mir è fondamentale per il “secondo” Putin, un’idea richiamata sempre più ossessivamente nel linguaggio del Cremlino. Una sorta di ritorno all’Unione Sovietica, l’area in cui la Russia dovrebbe tornare a esercitare la sua influenza. Un’idea molto forte e molto pericolosa, un’idea revisionista: la ricostruzione dell’influenza di Mosca sul Ruskiy Mir non avviene spontaneamente. Affinché accada, bisogna fare le guerre».

La domanda della BBC

Che cosa succederà nei prossimi anni? «Per fare previsioni sul futuro di Putin - dice Mara Morini - dobbiamo tener conto di ciò che accadrà negli USA e in Cina. Scelte strategiche e azioni politiche di questi due Paesi modificheranno inevitabilmente le mosse di Putin, il cui obiettivo, al momento, è mantenere stabilità politica e stabilità economica in Russia. L’economia di guerra sta salvando la situazione, ma al netto di quelle che saranno le formule della Nabiullina in futuro, ci sono segnali di stanchezza della popolazione russa sul conflitto. Qualcosa, Putin, dovrà offrire, nel 2025 o nel 2026, in termini di vittoria o quantomeno di sconfitta del nemico. Qualcosa dovrà inventarsi, posto che però ai russi piace la vittoria».

Forse, aggiunge Andrea Romano, «la domanda da farsi è la stessa che qualche giorno fa il corrispondente della BBC a Mosca, Steve Rosenberg, ha posto al presidente russo nella conferenza stampa di fine anno, la domanda che anche gli storici si faranno in futuro: “Lei, Putin, quando ha preso il potere da Él’cin, alla fine del1999, promise di rafforzare la Russia. C’è riuscito o no?”. Naturalmente Putin ha risposto “sì, ci sono riuscito”. Ma le cose stanno in maniera diversa. La Russia, oggi, è un Paese che sta diventando vassallo economico della Cina, da cui dipende in maniera sempre più forte. È evidente il paradosso di una voce retorica sempre più reboante, minacciosa, cui fa da contraltare una realtà militare ed economica debole. Quindi, alla domanda se davvero Putin sia riuscito a difendere gli interessi della Russia bisognerebbe rispondere di no. Perché il Paese, 25 anni dopo l’arrivo al potere dell’ex colonnello del KGB, non solo è sempre più antioccidentale, e ci può stare, ma è sempre più dipendente da altri. E soprattutto da Pechino».

Qualcosa cambierà? «Da storico - conclude Andrea Romano - credo poco al fatto che esista una Russia eterna, che ci sia uno spirito russo immutabile. Rispetto queste spiegazioni, per carità, ma la tesi che la Russia non possa o non voglia cambiare non mi ha mai convinto. E non credo affatto all’idea che la Russia sia condannata ad avere una dittatura ed essere sempre in guerra».