Aldo Moro e l'acqua per i pesci

di FABIO PONTIGGIA - Quarant'anni fa, il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, un commando delle Brigate Rosse rapì Aldo Moro, allora presidente del Consiglio nazionale della Democrazia cristiana, il partito di maggioranza relativa nella Prima Repubblica di cui Moro fu tra i fondatori. Nell'assalto alla Fiat 130 bianca, i terroristi delle BR, tra i quali c'era anche Alvaro Lojacono, uccisero i cinque agenti della scorta (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi). Il sequestro durò 55 giorni. Il politico democristiano venne ucciso dai terroristi il 9 maggio. Il suo corpo, trafitto da dieci colpi sparati con la mitraglietta Skorpion di Valerio Morucci e Adriana Faranda, venne fatto trovare dalle BR nel bagagliaio della famosa Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani. Presidente del Consiglio era Giulio Andreotti, ministro dell'Interno Francesco Cossiga, capo dello Stato Giovanni Leone. Tre giorni prima del rapimento decadde il terzo Governo Andreotti, quello della «solidarietà nazionale», detto anche della «non sfiducia», perché eletto grazie all'astensione del Partito comunista di Enrico Berlinguer. Proprio quel 16 marzo 1978 il nuovo Governo Andreotti, il quarto, ottenne la fiducia con i voti della DC, del PCI, del PSI, dei socialdemocratici, dei repubblicani e della Südtiroler Volkspartei. Era la stagione degli anni di piombo, degli opposti estremismi, del movimento del Settantasette, dei gruppi e gruppuscoli extraparlamentari, della violenza diffusa e della sua legittimazione politica e culturale da parte di molti intellettuali, professori, studenti; degli ammiccamenti salottieri. Perché dare rilevanza a questa triste ricorrenza? La ragione è che la violenza degli anni Settanta è la più pesante delle eredità lasciateci dal Sessantotto, di cui in questo 2018 si celebra il cinquantennale. Non che il Sessantotto sia stato produttore diretto e legittimante della violenza politica e del terrorismo. È stato tuttavia la premessa sociale, culturale e politica senza la quale gli anni di piombo in Italia e altrove (hanno sfiorato anche il nostro piccolo Ticino) non ci sarebbero stati (ne parliamo nell'approfondimento alle pagine 2 e 3). Una deriva sanguinaria della rivolta contro il sistema liberaldemocratico (o contro talune sue derive). Aldo Moro fu la vittima più illustre di quella violenza. Che ha un nome e un cognome, un'identità politico-ideologica ben precisa, volti identificati, responsabilità appurate. È bene ribadirlo a 40 anni di distanza, perché a scadenze regolari in Italia si tenta di confondere le carte in tavola, di intorbidire le acque e, così, di diluire o addirittura dirottare altrove le responsabilità. Esattamente come negli anni di piombo, quando le Brigate erano «cosiddette rosse». A dispetto delle farneticanti, confuse e claudicanti ricostruzioni fatte recentemente dall'ennesima «Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro» (un rapporto di 274 pagine del 7 dicembre scorso), la verità, cioè i fatti accaduti in quelle terribili settimane, è da tempo accertata. Già solo parlare di «morte di Aldo Moro» è un insulto alla verità, perché Moro non è morto: è stato ucciso. Con i «potrebbe» e i «sarebbe», con gli accostamenti allusivi e non delucidati, con le ipotesi suggerite e non dimostrate, con lo sfruttamento ambiguo delle inevitabili incongruenze e degli aspetti non chiari che qualsiasi complessa vicenda umana ha, non si ricostruisce la verità, nemmeno nell'era dei fatti alternativi. Il modo più subdolo di manipolare la verità è avvolgerla in un presunto mistero di trame oscure, negando la realtà dei fatti documentati. Dire che il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro a 40 anni di distanza siano ancora avvolti da una patina di mistero è cercare di far credere che i fatti non si siano svolti come si sono svolti e che qualcuno aveva e ha interesse a nascondere una presunta altra verità, di cui non c'è prova alcuna. Moro è stato assassinato dalle Brigate Rosse in quel clima di violenza diffusa e legittimata che, per chi non ne è stato testimone, risulta difficile oggi immaginare, ma che era il pane quotidiano con cui la società italiana e le sue istituzioni dovevano fare i conti. Tutto ciò che politicamente stava alla destra dei movimenti della sinistra extraparlamentare era considerato funzionale e asservito al sistema da abbattere. Un anno prima dell'agguato di via Fani, Luciano Lama, allora segretario generale della CGIL, il maggiore sindacato italiano espressione del PCI, venne quasi aggredito e cacciato dall'Università La Sapienza dove era andato a parlare contro la violenza e contro il terrorismo. Dopo il rapimento, sulla rivista del movimento Lotta continua, il 14 aprile 1978 Marco Boato pubblicò un lunghissimo articolo intitolato «Né con le BR né con lo Stato. E poi?»: «Né con lo Stato, né con le BR è solo una delimitazione, necessaria, ma in negativo. Dobbiamo costruire e riscoprire, senza dare nulla per scontato, una prospettiva e una pratica rivoluzionaria che non si nasconda nelle pieghe della storia». Intellettuali come Leonardo Sciascia sposarono e praticarono quell'indecente slogan. Furono tanti i cattivi maestri, da molti osannati. Moro venne rapito e ucciso perché, come ha detto l'ex brigatista rosso Alberto Franceschini, l'idea dei terroristi era di «innalzare continuamente il livello dello scontro per ottenere quanto richiesto, fino al punto in cui qualcuno dei due contendenti (le BR e lo Stato, ndr) sarebbe crollato». Le BR pretendevano di trattare da pari a pari con lo Stato e di vedere riconosciuti i terroristi in carcere quali «prigionieri politici». Volevano uno scambio clamoroso tra Moro e gli assassini anti-sistema. Il Governo e le forze politiche (PCI di Berlinguer in testa) dissero no. Solo il PSI di Bettino Craxi si disse fautore di una possibile trattativa pur di salvare la vita al presidente della DC. Le BR vennero a poco a poco sconfitte sul piano operativo. La guerra della democrazia contro la violenza politica e ideologica, figlia degenere del Sessantotto, fu vinta definitivamente negli anni Ottanta, quando cadde la legittimazione culturale che per anni l'aveva impunemente sdoganata. «Bisogna togliere l'acqua ai pesci», disse Luciano Lama. Andò, fortunatamente, così.