Alle radici della crisi di Alitalia

Per cercare di liberarsi di Alitalia - l’ex compagnia aerea di bandiera italiana che perde soldi ormai da vent’anni e che lo Stato non può continuare a pagare all’infinito – l’ultima trovata sarebbe quella di dividerla in tre diverse società. Nella prima, che Lufthansa sarebbe interessata a comprare, verrebbero raggruppati la flotta e il personale di volo (circa 6.500 tra piloti e assistenti). Nelle altre due rispettivamente il personale di terra e il personale dei servizi di manutenzione, tremila e duemila addetti. La prima delle tre società diventerebbe dunque qualcosa di simile a ciò che sono Swiss e Austrian Airlines, mentre le altre due resterebbero sulle spalle dello Stato italiano che le liquiderebbe con un piano sociale.
Alitalia entrò apertamente in crisi alla fine del secolo scorso, più o meno negli anni in cui accadde lo stesso a Swissair e ad altre compagnie di bandiera europee.
Mentre però la vicenda di Swissair si risolse nel 2002 con il drammatico ma in fondo salutare fallimento, Alitalia ha continuato a sopravvivere a se stessa a spese dello Stato ossia dei contribuenti. Secondo uno studio del 2015 di Mediobanca, la somma degli aiuti versati ad Alitalia dal Governo tra il 1974 e il 2014 ammontava a 7,4 miliardi di euro in valore aggiornato al 2014. Secondo «Il Sole 24 Ore», da allora alla fine del 2018 la cifra è ulteriormente aumentata fino a raggiugere gli 8 miliardi e 700 milioni di euro. La storia degli aiuti di Stato ad Alitalia cominciò ben prima che la crisi della compagnia diventasse nota ed evidente. Dal 1974 a oggi undici diversi governi dei più vari orientamenti hanno dato soldi ad Alitalia. Qualcuno si è anche divertito a farne la graduatoria con riguardo ai rispettivi premier. Ai primi tre posti sono nell’ordine Berlusconi (un miliardo e 908 milioni), Prodi (un miliardo e 674 milioni) e Gentiloni (900 milioni). Seguono Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Aldo Moro, Enrico Letta e Matteo Renzi.
Nata nel 1946 come società di proprietà dello Stato attraverso l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), dal 2009 Alitalia è ufficialmente privata. Ciononostante ha continuato a ricevere soldi dallo Stato, che già si prepara a spenderne altri. L’unico tentativo serio di salvarla risale al 1997-99 quando si andò vicino a un accordo per la sua fusione con la compagnia olandese KLM. L’accordo prevedeva che l’hub della compagnia venisse spostato da Roma-Fiumicino a Milano-Malpensa e che l’aeroporto di Milano-Linate restasse in funzione solo per i voli tra Milano e Roma. La cosa non funzionò finché nell’aprile 2000 KLM se ne ritirò non esitando per questo a pagare una penale da 250 milioni di euro. Quando poi nel 2006 KLM si era già fusa con Air France, il nuovo gruppo Air France-KLM manifestò un forte interesse per Alitalia, ma nel 2008, visto che Berlusconi era contrario, ritirò la propria offerta.
La vicenda aiuta a capire quale sia in realtà il nocciolo del problema di Alitalia (come analogamente quello della RAI). Alitalia in realtà è Aliroma, un’azienda che insieme appunto alla RAI è una delle due maggiori fonti di posti di lavoro della grande città laziale al di fuori dell’amministrazione dello Stato. Non si tratta di vere aziende private: sia le assunzioni di personale sia gli acquisti di materiali e servizi sono influenzati dalla politica. Lo stesso fatto che abbiano sede a Roma dipende dalla politica. Le compagnie aeree efficienti hanno di regola il loro hub nelle capitali economiche e non in quelle politiche. Air France ha sede a Parigi perché la città è capitale sia economica che politica. Swiss non ha invece sede a Berna, né Lufhansa a Berlino, e a Washington non ha la base principale nessuna grande compagnia USA. Bastò invece la richiesta di KLM di spostare l’hub di Alitalia da Roma a Milano per provocare il fallimento dell’accordo già sottoscritto. Avere per capitale una grande città che non ha un’economia produttiva ma vive quasi solo di spesa pubblica è un fattore chiave della crisi italiana. Purtroppo è un problema che nessuna forza politica ha mai osato sollevare perché chi lo sollevasse rischierebbe di perdere il consenso del grosso degli elettori romani: un rischio che nessun partito vuole o può correre.