Colonialismo europeo vecchio e nuovo
Tranne alcuni Stati dell’Africa occidentale - Ciad, Mauritania, Costa d’Avorio, ecc. - che sono ancora sotto un regime di virtuale protettorato da parte della Francia (un protettorato peraltro politicamente sempre più incerto), e tranne piccolissime isole o enclavi sparse qua e là nel mondo dove tutt’oggi si esercita la sovranità di qualche Paese del nostro continente, il colonialismo in Europa è ormai un fenomeno sconosciuto.
Ciò è accaduto non solo a causa della rivolta politica delle popolazioni locali quanto soprattutto per il costo sempre crescente che comportava il possesso di quei territori: il mantenervi forze militari e di polizia, una struttura amministrativa, ospedali, scuole, trasporti, reti di comunicazioni. Spese in certo senso superflue dal momento che i vantaggi del rapporto coloniale potevano essere sostanzialmente conservati anche riconoscendo l’indipendenza politica dei Paesi un tempo sottoposti al dominio europeo. Ad esempio riuscendo - come è quasi sempre riuscito - a utilizzarne le risorse naturali da una posizione di forza. Paradossalmente meglio di ogni altro lo ha capito la Cina comunista che oggi è di fatto anche se non di diritto la massima potenza coloniale del mondo. Negli ultimi vent’anni essa infatti si è limitata a comprare da alcuni Paesi africani enormi porzioni di territori utilizzandoli specialmente per le produzioni agricole di cui ha grande bisogno e per le quali utilizza naturalmente manodopera locale. Di pari passo Pechino mantiene quei Paesi in condizione di dipendenza regalando loro infrastrutture essenziali (ferrovie, aeroporti) di cui conserva però nelle proprie mani l’esercizio.
L’Europa però non è restata con le mani in mano. È accaduto infatti che, cancellate le colonie di un tempo, essa le abbia in certo senso ricreate al proprio interno. Dentro i propri confini ha ricreato cioè un rapporto di vassallaggio/sfruttamento nei confronti di masse di uomini e donne ai quali viene offerto di lavorare in condizioni che ricordano molto da vicino lo sfruttamento della manodopera nelle colonie.
Il primo caso è quello dell’agricoltura. Se nei nostri supermercati troviamo frutta e verdura a prezzi mediamente accessibili (il che contribuisce a moderare anche il costo della vita e il livello delle retribuzioni), ciò si deve in larga misura al fatto che una parte importante dell’agricoltura ortofrutticola del Sud Europa (Italia e Spagna in prima linea) utilizza manodopera immigrata (spesso illegale e naturalmente sempre avventizia) di provenienza africana o rumena, bulgara, moldava, ecc. Una manodopera le cui condizioni di lavoro sono assai vicine a quelle della schiavitù di un tempo: giornate di 10-12 ore, salario bassissimo, nessuna sindacalizzazione, nessuna protezione sanitaria, permanenza notturna in locali fatiscenti. Osservazioni che potrebbero benissimo estendersi anche agli autisti (perlomeno quelli italiani) incaricati di portare i prodotti agricoli nelle città del nord.
Il secondo caso è quello rappresentato da chi lavora in fabbriche collocate in alcuni Paesi dell’Europa orientale spesso membri dell’Unione Europea (ad esempio l’Ungheria) ma che producono semilavorati destinati all’industria tedesca, quasi sempre all’industria automobilistica. Anch’essi hanno una retribuzione estremamente bassa (in genere 4-500 euro mensili), scarsissima protezione di Welfare e nessuna possibilità di contrattazione del salario, dal momento che questo è fissato per legge dal loro Governo, previo accordo con la proprietà tedesca in cambio della localizzazione di quelle lavorazioni nei territori dell’est. Va sottolineato che è per l’appunto un sistema del genere che consente all’industria della Germania di mantenere per molti suoi manufatti costi di produzione relativamente bassi e di conseguire quindi alti profitti con i quali assicurare alte retribuzioni ai propri dipendenti. Naturalmente solo a quelli che lavorano nella Germania, i quali si trovano in tal modo ad essere i beneficiari di fatto dello sfruttamento che invece subiscono i loro colleghi dell’est. Va pure sottolineato che tutto ciò avviene in barba alle regole dell’UE che quando si tratta della Germania e dell’area orientale dell’Unione sembra molto spesso disposta a chiudere un occhio e a rinunciare a far sentire la sua voce.
Occuparsi e discutere ogni tanto di queste cose è necessario non per fare il processo a qualcuno. Bensì per conoscere meglio il mondo in cui viviamo, per renderci conto di come funziona e, voglio aggiungere, anche per tenere sveglia la nostra coscienza, per impedirle di addormentarsi: specie quando si tratta di questioni che in qualche modo ci riguardano direttamente. La libertà di stampa serve anche a questo.