Come cambia la geopolitica
Le settimane seguite all’elezione di Trump in novembre hanno già cambiato la geopolitica, nonostante che il nuovo governo americano non sia ancora insediato. L’invadente regia mediatica di Musk ci ha informato che l’America è pronta a sfidare chiunque si ponga di traverso alle soluzioni che propone per i problemi aperti nelle relazioni internazionali. Al gradualismo di Biden, accusato di non avere risolto nulla, subentra un nuovo attivismo, pronto a tendere una mano agli avversari, se disposti ad accettare gli accordi proposti dagli Stati Uniti, che useranno la leva economica con spregiudicatezza per tenere amici ed avversari in fila. Anche se la compattezza della maggioranza repubblicana già vacilla nelle due camere del Congresso americano, Trump gode di ampi poteri nelle aree che riguardano più direttamente le relazioni internazionali.
L’esordio di Trump beneficia della tempestiva caduta del regime siriano, che priva la Russia delle sue basi nel Mediterraneo e consente di riprendere la ricerca della pace in Medio Oriente. Gli accordi di Abramo, voluti dalla precedente amministrazione Trump e bruscamente fermati l’anno scorso dall’attacco di Hamas, adesso potrebbero essere estesi ai Paesi arabi moderati. Restano problemi spinosi aperti, quali il futuro della Siria e dei molteplici gruppi che la popolano, ma certamente la destituzione di Assad e l’indebolimento dell’Iran aprono migliori prospettive per la pace e per l’economia americana. Negli scorsi giorni, non casualmente, la Turchia ha dato alla Boeing americana una gigantesca commessa a spese dell’Airbus europeo.
I rivali degli Stati Uniti reagiscono in ordine sparso al nuovo corso trumpiano. Mentre i cinesi, con antica saggezza, ricambiano l’apertura di Trump, almeno a parole, i russi alzano la posta, disdegnando la nuova moderazione imposta da Trump agli ucraini. La reazione di Trump è stata immediata. Ha minacciato gli europei di tariffe se non comprano più gas americano, onde bloccare le triangolazioni che consentono alla Russia di vendere indirettamente la sua energia all’Europa. Inoltre vuole che i Paesi della Nato aumentino le spesee militari al 5% del loro prodotto nazionale, ovvero due o tre volte dal livello attuale. Data la sua insistenza per bilanciare gli scambi commerciali, questo si tradurrebbe in forti commesse per l’industria americana.
Le profonde crisi dei governi francesi e tedeschi assicurano che l’Europa si adeguerà prossimamente alle richieste americane, non essendo in grado di proporre alternative credibili. La Svizzera si confronta quindi con un’Unione Europea sempre più debole, unificata oggi solo dalla supina obbedienza ai diktat trumpiani. Questa situazione mette in discussione molte delle basi della politica estera svizzera. La neutralità svizzera, che ne è il fondamento storico, era sostenuta dal bilanciamento degli interessi contrapposti dei Paesi limitrofi. Oggi la Svizzera è circondata da Paesi allineati agli interessi americani e in conflitto con la Russia. Pertanto il nostro potere negoziale con l’Unione Europea è molto ridotto.
Questa realtà è riflessa nei nuovi accordi bilaterali raggiunti dalla Svizzera con l’Europa. Molti storceranno il naso ai termini che riconoscono la nostra posizione contrattuale relativamente debole. L’alternativa, in realtà, non è scriverli come vogliamo noi, ma valutare se potremo sperare di guadagnare qualcosa respingendoli. La loro accettazione, da parte del parlamento e del popolo, è pur sempre condizionata alla continuazione della controparte. Se oggi si votasse sull’Unione Europea, ad esempio in Francia, l’esito negativo sarebbe quasi certo. L’eccessiva burocrazia e il distacco della politica europea dai problemi dei cittadini hanno alienato l’Unione dalla volontà popolare.
Questa disaffezione rende gli equilibri all’interno dell’Unione precari e i tentativi di riforma velleitari. Pertanto, dovremo valutare le nostre scelte sugli accordi su un terreno molto scivoloso.