Calcio e nostalgia

Como, ma che fine ha fatto la Mita?

Il ritorno in Serie A del club lariano riporta alla memoria parecchi ricordi – Tra questi, anche lo storico sponsor dei favolosi anni Ottanta
Paolo Galli
12.05.2024 13:30

Vedi il Como in Serie A e non puoi non pensare agli anni Ottanta. Vedi il Como in Serie A e non puoi non pensare a Borgonovo, a Corneliusson, a Hansi Müller. Vedi il Como in Serie A e non puoi non pensare a Mita. Sì, a quello sponsor, su quella maglia blu, con le righe bianche verticali, sottili sottili. Mita, o meglio «mita», tutto in minuscolo, corsivo, al centro della maglia, con il simbolino dell’Adidas appoggiato a mo’ di asterisco. Uno sponsor, Mita, associato anche ad altri club: Genoa, Aarau, Atletico Madrid, Aston Villa e Independiente. 

Leggiamo nel sito «museodelcomo.it», in merito alla stagione 1983-1984, quella della promozione in Serie A: «Ritorna lo sponsor sulle maglie del Como, inizia il binomio Adidas con il marchio Mita, che accompagnerà la squadra per sei stagioni, forse le più esaltanti della storia del Como. Nell’anno della promozione in Serie A, la maglia si trasforma, il tessuto diventa completamente sintetico, viene tolto lo scudetto e i numeri e lo sponsor sono stampati in materiale plastico». Per chi non ha vissuto, nemmeno da allievo, il calcio di inizio anni Ottanta, ebbene, le magliette erano in cotone spesso – quasi lanetta – con numeri cuciti, dello stesso materiale. In quella fase arrivò il sintetico. E fu rivoluzione.

Salito in A, il Como a quel punto si ritrovò con una maglietta iconica e con una rosa pazzesca, per la piazza che era. Ottavio Bianchi in panchina, e in campo gente come Giuliani – consigliatissima la sua biografia Più solo di un portiere, di Paolo Tomaselli (66th&2nd) –, «Tarzan» Annoni, Pasquale Bruno, Tempestilli, capitan Centi, il futuro bianconero (nel senso di FC Lugano, ma non solo) Fusi, Matteoli, gli iconici Invernizzi e Notaristefano, appunto Müller e Corneliusson.

Era la stagione 1984-1985. La stagione del Verona campione d’Italia, di Self Control di Raf tra i dischi più venduti – anche se il Sanremo del 1985 fu dei Ricchi e Poveri e di Se m’innamoro –, di Non ci resta che piangere e di I due carabinieri al cinema, dei paninari, del Drive In in tv. Terreno di clamorosa nostalgia canaglia (non la canzone, quella uscì nel 1986). E il Como sulla maglia aveva Mita, sì. Ma che cos’era Mita?

Oggi, lo diciamo subito, Mita non esiste più, non come Mita e basta. Abbiamo trovato un articolo del portale Italia Oggi, dell’agosto 1998, dal titolo «Kyocera soccorrerà Mita Industrial». E si legge: «Il gruppo elettronico Kyocera ha deciso di andare in soccorso della Mita industrial (fotocopiatrici), che ieri ha chiesto la protezione della legge giapponese sui fallimenti, sotto il peso di un passivo di oltre 200 miliardi di yen (2.400 miliardi di lire). Con 3.600 dipendenti e un fatturato di 117 miliardi, la Mita in Italia è conosciuta anche per essere stata sponsor del Como calcio». Ecco già varie risposte. In primis, quella sull’attività di Mita: era una società che produceva fotocopiatrici. L’articolo prosegue: «La Kyocera, specializzata nella produzione di componenti per l'elettronica e come tale fornitrice della Mita, invierà i propri dirigenti alla società, attualmente sotto il controllo della famiglia Mita, e procederà all'iniezione di capitali per un importo non precisato. I rispettivi fondatori, Kazuo Inamori e Shigeo Mita, hanno ottime relazioni personali, come sottolinea un portavoce di Kyocera, e per questo la Kyocera ha risposto alla richiesta di aiuto della Mita».

Insomma, il mito di Mita è stato assorbito. In Ticino esiste la Mitarex, a Bioggio, dal 1992: ai tempi – e lo dimostrano le pubblicità dell’epoca anche sul nostro giornale – vendeva fotocopiatrici Mita (ne era la rappresentante ufficiale nel nostro cantone) e ancora oggi vende prodotti Kyocera. Ma, certo, a noi resta comunque la nostalgia. Di sicuro non possiamo sperare di rivedere quello sponsor, quel Mita e basta, sulle maglie del nuovo Como. All’interno di un articolo del sito Calcio e finanza, si cita un vecchio pezzo del Sole 24 Ore, pubblicato alla vigilia di quel campionato, il 1984-1985: «L’investimento pubblicitario che le aziende si apprestano a fare nel 1984, considerando le trentasei squadre di Serie A e B, ammonta a circa 25 miliardi di lire». Una grossa cifra (che lo stesso Calcio e finanza equipara «a circa 35 milioni di euro attuali»), dovuta anche al fatto che proprio nel corso di quell’estate venne aumentata la superficie disponibile per gli sponsor: 144 centimetri quadrati.

Ma Mita non è il solo sponsor iconico di quel campionato. Molte sono le aziende che legarono con contratti pluriennali il proprio prestigio a quello delle squadre italiane dell’epoca. Basti pensare agli abbinamenti più noti, a Juventus e Ariston, a Inter e Misura, a Napoli e Cirio, a Roma e Barilla. E colpisce la presenza di vari marchi dell’elettronica, tra macchine fotografiche ed elettrodomestici. Detto di Mita e Ariston, c’erano anche Castor per la Lazio, Phonola per la Sampdoria, Sweda per il Torino, Agfacolor per l’Udinese e Canon, naturalmente, per il Verona campione. Sweda produceva e distribuiva registratori e terminali di cassa: oggi non esiste più. Molti pure i marchi di alimentari: Misura, Cirio e Barilla erano i più noti, ma poi l’Ascoli aveva l’olio San Giorgio, l’Avellino aveva Santal, la Cremonese la Soresina. La Fiorentina era stata tra le prime ad avere uno sponsor automobilistico, la Opel (che poi passò al Milan un decennio più tardi). Mentre il Milan, ancora di Giuseppe Farina, dava già qualche segnale di berlusconismo, con un’estate con Retequattro sul petto, poi sostituito da Oscar Mondadori (la Mondadori sarebbe entrata a far parte della galassia Fininvest solo negli anni Novanta, il Milan venne acquistato da Berlusconi nel 1986). Chiude il cerchio l’Atalanta, che sulle sue maglie aveva il marchio Sit-In, attivo (ancora oggi) nel settore tessile, in particolare nella produzione di moquette.

Oggi il Como ha, quale sponsor, sulle sue maglie, il marchio Mola. Non è Mita, ma lo ricorda. Non è giapponese, bensì indonesiano. Non produce fotocopiatrici, ma vende streaming. E anche questo è un segno dei tempi.

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