La riflessione

Consumismo americano e identità europea

La colonizzazione commerciale e culturale di cui è stato oggetto negli ultimi settan’anni il Vecchio Continente ha radicalmente mutato il nostro modo di vedere e affrontare le cose imponendo il modello utilitaristico rispetto a quello conoscitivo
Roberto Cotroneo
02.07.2020 06:00

Victoria De Grazia è una donna tenace. È nata a Chicago, ha lontane origini italiane, e insegna Storia Europea alla Columbia University. Ora sta per uscire in Italia un suo lungo saggio che fece molto discutere quando venne pubblicato negli Stati Uniti, e se fossimo tutti un po’ meno distratti farebbe, e molto, discutere an-che da noi. Il saggio si intitola: L’impero irresistibile, e lo pub-blica Einaudi. Sono 620 pagine dedicate a un tema che è sintetizzato nel sottotitolo del libro: «La società dei consumi americana alla conquista del mondo».

Non si poteva dire con più chiarezza. E va ammesso che da decenni, in una forma tutta da capire, si discute di questo, senza però andare fino in fondo. Se ne discute in modo alle volte ideologico, alle volte con molti pregiudizi, ma con una certezza: la società dei consumi americana ha cambiato la vecchia Europa. E lo ha fatto con una forza, una determinazione, una consapevolezza inimmaginabili. È l’impero irresistibile di cui parla la De Grazia, è qualcosa che ha cambiato i nostri stili di vita, che ha messo in campo una propaganda gigantesca, che ha utilizzato tutto il potenziale persuasivo di una società che voleva imporsi economicamente in una Europa ferita dalla guerra, annientata dai totalitarismi, incredula di fronte a povertà e distruzioni. Con la Quinta Armata sono arrivati il chewin gum e In the mood dell’orchestra di Glenn Miller. Ma era solo l’inizio. Piano piano i prodotti americani, il gusto americano è entrato dentro l’identità europea come fosse un coltello che affonda nel burro. E nel libro di Victoria De Grazia questo è spiegato con una lucidità e una nitidezza che ci dovrebbero preoccupare. Perché mentre i consumi cambiavano, mentre l’impero commerciale americano consolidava la sua posi-zione e il suo potere, dall’Europa scomparivano diversità e molteplicità in modo sempre più evidente. E si imponeva un’idea: quella di un mondo che ha bisogno di competenze e non di conoscenze.

Guardare di sbieco
E qui entriamo in un’altra storia, che la De Grazia non racconta, ma che è all’origine del nostro disorientamento culturale. Qualche anno fa, Carlo Ginzburg, un altro storico, questa volta italiano, ma anche lui con cattedra negli Stati Uniti tenne una conferenza a Rimini a proposito di un libro che aveva pubblicato da Adelphi. Il libro si intitolava: Paura, reverenza, terrore. Tra le varie cose, Ginzburg scriveva che «per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco». Visto che siamo sommersi di immagini, di schermi, di pagine di giornali, di dispositivi e computer che, frontalmente, vogliono sedurci e catturare la nostra attenzione, spesso per venderci qualcosa, ovvero venderci quello che ci stanno vendendo da decenni. Ginzburg è un attento lettore di immagini e di opere d’arte. È uno storico che ama capovolgere il punto di vista comune per arrivare più a fondo alle cose. È una virtù anche di Salvatore Settis, un grande intellettuale, archeologo, saggista, tra i primi a denunciare questa ossessione contemporanea per le competenze. Tutti badano a crearsi competenze e nessuno si cura delle conoscenze. La nostra scuola, le università, si stanno sempre più pragmatizzando, e nelle competenze vedono l’unica possibilità di capire il mondo perché l’applicabilità e la praticità sono qualcosa di irrinunciabile, sono la modernità, e soprattutto fanno il mercato. Per cui vince chi ha competenze e perde chi ha semplicemente delle conoscenze.

Una pericolosa terra di mezzo
Il libro di Ginzburg e quello della De Grazia si tendono la mano, in un certo senso, a distanza di tempo. Viviamo in un mondo dove vengono richieste di continuo competenze inservibili, perché cambiano di continuo, invecchiano rapidamente. Ma il dramma è che a furia di considerare le conoscenze come qualcosa di vecchio, di poco pratico e le competenze come il nostro unico modo di essere coerenti con il futuro, con la rivincità della praticità, restiamo in una terra di mezzo. Quella di chi non sa più riconoscere i saperi e interpretarli. Restano solo le tecniche che servono a far «funzionare», tecniche che si insegnano nelle università, e che hanno reso la scuola solo un concentrato di sapere utili per trovare un lavoro. Sono le stesse tecniche che hanno portato alla conquista americana di un’Europa che ancora basava la sua forza sull’insegnamento dei classici, sulle lingue antiche, sulla storia dell’arte. Il mercato non chiede conoscenze ma chiede competenze. Le competenze per venderci quello che non ci serve, per imporci uno stile di vita che fa a meno del passato, perché il passato è d’intralcio. Poi accade che ci perdiamo e non sappiamo più in che mondo siamo. E siamo smarriti. Impariamo senza conoscere. Ci muoviamo in un mondo nuovo che ha terribilmente bisogno di conoscenze, oggi più che mai, e non riusciamo più a capirlo.

Conoscenza o competenza?
È accaduta all’incirca la stessa cosa con la cultura scientifica. Il punto in questi mesi era capire attraverso quali numeri si trasmetteva la COVID-19, in che modo i medici l’avrebbero curata, attraverso quali tecniche sarebbe stato possibile fabbricare un vaccino. Queste sono competenze. Le conoscenze sono un’altra cosa: in quale mondo stiamo vivendo da alcuni anni? Quanto abbiamo alterato l’ecosistema? Come cambierà la nostra percezione del mondo da domani? Non sono filosofie che non vanno alla sostanza del problema, ma sono il problema vero. Solo che ci hanno abituato a pensare che le domande giuste siano le prime che ho elencato. Come diceva Charlie Brown in una strip: «Quando avevo trovato tutte le risposte, mi hanno cambiato le domande». La conoscenza è fatta di domande, la competenza è fatta di risposte, e le risposte il più delle volte sono inservibili.