Da riformare è la Costituzione

In Italia non basta ridurre il numero dei parlamentari
Piero Ostellino
25.05.2009 05:00

di PIERO OSTELLINO - Se Silvio Berlusconi – con la sua «trovata» di un disegno di legge di iniziativa popolare che riduca della metà l?attuale numero di parlamentari italiani (300 deputati contro 630; 150 senatori contro 315) – pensasse di far funzionare più velocemente e meglio il Parlamento si farebbe qualche illusione. «È appena il caso di ricordare – ha scritto Stefano Folli sul Sole 24Ore di ieri – che i deputati «tacchini» non sono stati eletti, bensì nominati dalle segreterie politiche in virtù della nota e pessima legge elettorale a liste bloccate». Prosegue, poi, Folli, che è il miglior analista di questioni politiche italiane che scriva sulla stampa nazionale: «Accusare questi parlamentari, del tutto ligi a chi li ha scelti, di bloccare l?attività di Governo, appare quanto meno incongruo». Il Parlamento italiano funzionerà con 300 deputati e 150 senatori come ora che ne ha il doppio: male. Poiché, dunque, il presidente del Consiglio non è uno sprovveduto, non pare azzardato dire che l?obiettivo della «trovata» sia un altro. Meglio ancora, siano altri, al plurale. Innanzitutto, Berlusconi vuole tenere nell?angolo l?opposizione del Partito democratico di Dario Franceschini – che nell?angolo c?è già per demeriti suoi propri – e metterci quella di Italia dei valori di Antonio Di Pietro, che è, invece, all?attacco per erodere consensi fra l?elettorato del Popolo della libertà con argomenti analoghi ai suoi. Berlusconi cavalca il cavallo dell?antipolitica – con un?iniziativa che più antipolitica non potrebbe essere, coinvolgendo milioni di cittadini che dovrebbero sottoscrivere il disegno di legge – perché è su questo terreno che il centrosinistra non lo può seguire senza smentirsi, ma sul quale è anche elettoralmente molto debole, e perché è su questo stesso terreno che, invece, Di Pietro lo sta attaccando. Il presidente del Consiglio, come avrebbe detto Mao, vuole togliere al pesce Italia dei Valori l?acqua dove nuota. In secondo luogo, Berlusconi – cavalcando qui, al contrario, il cavallo della politica come «attività del fare» – vuole dimostrare che, se le riforme che aveva promesso non si sono fatte, la responsabilità non è sua, forse neppure dell?opposizione, nei confronti della quale i suoi consiglieri una porta aperta la lasciano sempre, ma del parlamentarismo, di un sistema decisionale che non funziona. Basterebbe, però, cambiare i regolamenti parlamentari, ridurre, non deputati e senatori, ma le procedure che impediscono di legiferare con la necessaria rapidità e il problema sarebbe risolto. Ma neppure questo è l?obiettivo della sortita berlusconiana. E così arriviamo alla terza e autentica motivazione che ha mosso il presidente del Consiglio. Berlusconi, malgrado sia enormemente cresciuto come uomo politico da quando è sceso in campo, nel 1994, non è un uomo di Stato. Resta un uomo d?affari che ha portato nella politica la sua idea del «fare». Quella di un decisionista insofferente delle istituzioni (i pesi e contrappesi fra poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario - che si equilibrano a vicenda, evitando che uno prevalga sull?altro), della prassi (tesi e antitesi che si contrappongono per pervenire a una sintesi attraverso la mediazione e il compromesso), della filosofia politica che presiede alla politica stessa (l?insofferenza per gli intellettuali, che spaccano sempre il capello in quattro, e per chiunque gli faccia perdere tempo con inutili discussioni). Egli continua pervicacemente a confondere il Consiglio dei ministri con un Consiglio di amministrazione del quale lui sia il presidente, anche se la maggioranza dei «consiglieri» (i ministri) li ha nominati in gran parte lui e gli altri non potrebbero uscire da una maggioranza quale è quella che ha vinto le elezioni e governa il Paese senza commettere suicidio. Il terzo e ultimo obiettivo della «trovata» del Cavaliere è, allora, passare – attraverso un plebiscito popolare – dal sistema parlamentare a un sistema presidenziale che gli conferisca quel potere decisionale che lui ora non ha, o ritiene di non avere, a sufficienza. Per fare che cosa? Di certo non per fare le riforme, che gli italiani – compresi quelli che lo votano – non vogliono, ma per soddisfare l?ambizione che ogni uomo d?affari ha: quella di scalare il mondo, non per far soldi, non per accumulare potere, non per soddisfare un?ambizione, ma per una sorta di missione, estetica e mistica allo stesso tempo, incarnata nella propria stessa funzione di imprenditore. In realtà, i suoi detrattori e molti fra gli stessi osservatori neutrali della politica italiana dicono che Berlusconi avrebbe identificato tale missione estetica e mistica nella propria elezione a presidente della Repubblica. Che soddisferebbe definitivamente le ambizioni represse di un parvenu quale egli è rimasto, e soprattutto si sente, di fronte all?establishment economico e culturale italiano. Ho cercato di fornire un quadro, non convenzionale, delle ragioni e degli obiettivi che possono aver spinto quest?uomo intelligente, capace, fondamentalmente un antipolitico, ad aprire questo ulteriore varco nell?anestetizzata politica italiana. Sono convinto che siano tutte plausibili, comprese quelle strettamente di natura psicologica. Il guaio è che sono altrettanto convinto che non faranno uscire l?Italia dalla palude dove è affondata, non da ieri o da ieri l?altro, ma dalla fine della guerra. Quando i costituenti – cattolici collettivisti, marxisti dirigisti, liberali scettici e minoritari – hanno creato un Ordinamento giuridico fatto per impedire a chiunque avesse vinto le elezioni di governare. Il tarlo del sistema politico italiano sta nella Costituzione che è vecchia, pasticciata, non funzionale, per non dire malauguratamente illiberale. È dalla riforma della prima parte – non della seconda, come sogna il Cavaliere – che si dovrebbe partire. Ma nessuno la vuole. Perché gli «italiani che contano» – in politica, negli affari, nella cultura – e che potrebbero farla solo se ci si mettessero sono per la maggior parte dei gattopardi, retorici, incolti e bigotti. Soprattutto interessati a uno statu quo che impedisce al Paese di entrare nella Modernità, ma finisce col convenire un po? a tutti.