Dalla sconfitta di Harris una lezione per i democratici: chi non risica non rosica
«Non sapevo fosse afroamericana, fino a quando lo è diventata qualche anno fa e ora vuole essere riconosciuta come tale. Quindi non so: è afroamericana o indiana?». Con questo attacco a Kamala Harris – avvenuto nel mese di luglio, dieci giorni dopo il forfait di Joe Biden –, Donald Trump insinuava che la candidata dem avesse abbracciato le sue origini (padre giamaicano, madre indiana) solo per ragioni elettorali. «Una falsità», una delle tante pronunciate dal tycoon, avevano subito fatto notare i media internazionali: studente alla Howard University (università storicamente black), Harris aveva fatto parte anche della confraternita prevalentemente afroamericana Alpha Kappa Alpha. Insomma, nessuna recente (e interessata) presa di coscienza. Ma qualcosa va riconosciuto all'ex e nuovo presidente statunitense: razzista e apparentemente controproducente, l'uscita aveva toccato, pur con gli argomenti sbagliati, un nervo scoperto dell'avversaria. Quello identitario. Chi è, davvero, Kamala Harris? La risposta, lo dimostrano i risultati delle elezioni presidenziali, sembra non averla saputa dare nemmeno la candidata democratica.
Già, perché al di là della disfatta totale negli swing states, c'è un numero che ha stupito gli analisti: Trump non ha trionfato solamente con i grandi elettori, ma anche nel voto popolare. Per un repubblicano non succedeva da 20 anni. Sebbene all'appello manchino ancora il 40% dei voti della democratica California (parliamo di diversi milioni di preferenze) e alcuni punti percentuali di Stati meno popolosi, i dati raccolti sin qui – 66,5 milioni di voti per Kamala Harris – mostrano una decisa diminuzione rispetto alla prestazione di Biden, che nel 2020 era entrato nella Casa Bianca forte delle preferenze di oltre 81 milioni di americani. Numeri che fanno intendere come Harris, in queste elezioni, non solo non sia stata in grado di vincere il favore dei tanto sospirati repubblicani moderati e anti-Trump (esistono in percentuali apprezzabili?) ed elettori indipendenti, ma che abbia pure perso il sostegno di parte della propria base democratica.
E, con il senno di poi, come non dare – se non tutta, almeno in parte – la colpa al già citato problema identitario? Furbescamente presentata da Trump come una marxista, Kamala Harris ha fatto di tutto, in questi mesi, per limare le proprie policies più progressiste. Abbandonando, ad esempio, l'ipotesi di un bando al fracking e abbracciando posizioni più dure sul tema immigrazione. O rifiutando, sulla guerra in Medio Oriente, di fornire rassicurazioni alla fetta di elettori democratici che chiedeva una stretta sull'invio di armi a Israele. Tutte strategie, queste, che in teoria avrebbero dovuto unire il maggior numero possibile di americani di tutto lo spettro politico dietro un'unica bandiera. Ma che in pratica, «né carne né pesce» hanno finito per non convincere nessuno.
Uno spostamento qui, uno spostamento lì, la distanza che – politicamente – separava gli estremi di Kamala Harris e di Donald Trump si è fatta «meno estrema». Un avvicinamento propiziato anche dai toni, divisivi, rivolti più al discredito dell'avversario che al proprio sostegno, finiti per divenire tratto comune a entrambi gli schieramenti. In un Paese in cui la destra moderata – quella di John McCain, per fare un esempio – pare morta e sepolta, sotterrata dall'estremismo trumpiano, la soluzione per il partito democratico, lo dimostrano una volta di più queste elezioni, non è lo spostamento al centro, la sciapa rivisitazione dell'offerta repubblicana. Chi non risica, insomma, non rosica. Per rinascere, l'Asinello dovrà avere il coraggio di dar fiducia a correnti più progressiste.