Ecco perché sugli ostaggi Hamas ha cambiato strategia
A lungo sobbollente, in Israele la rabbia è infine traboccata, riversandosi nelle strade. Negli ultimi giorni, la popolazione è scesa in piazza – a Tel Aviv e in altri centri – per protestare contro Benjamin Netanyahu e il mancato accordo per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, nella Striscia di Gaza. Centinaia di migliaia di persone – numeri mai raggiunti, dal 7 ottobre a oggi, nelle pur frequenti contestazioni – hanno manifestato il proprio sdegno per il ritrovamento, sabato scorso, dei corpi di sei ostaggi israeliani nei tunnel dell'enclave. Una perdita, è questo il sentimento generale, che si sarebbe potuta evitare se il governo avesse spinto con più convinzione verso un cessate il fuoco con il gruppo islamista.
I sei, del resto, erano vivi fino a poche ore prima il rinvenimento. Le autopsie condotte in Israele collocano il momento della loro uccisione – con multipli colpi di arma da fuoco – fra giovedì e venerdì. La loro «esecuzione» (questo il termine usato dalle autorità israeliane) sarebbe quindi avvenuta mentre i soldati delle Forze di difesa israeliane (IDF) si trovavano vicini. E non per puro caso, ma con il chiaro obiettivo di salvarli, così ha fatto intendere Netanyahu in conferenza stampa: «Ci siamo andati vicini, ma non ci siamo riusciti».
Che il ritrovamento di questi corpi sia avvenuto in modo casuale o davvero nel mezzo di un'operazione di soccorso non è questione secondaria, ma punto (potenzialmente) cruciale della guerra in corso nella Striscia. Il fatto che le IDF siano riuscite, negli scorsi mesi, a portare a termine missioni di salvataggio costate la vita di centinaia di civili palestinesi lascia presupporre che Hamas avesse sin qui un forte interesse nel mantenere in vita, fino all'ultimo, gli ostaggi. Tanto che tre settimane fa – era il 12 agosto – un portavoce dell'ala militare, le Brigate al-Qassam, aveva annunciato l'apertura di un'indagine che facesse luce sull'uccisione di un prigioniero israeliano e il ferimento di altri due per mano di una guardia islamista.
Come fatto osservare da diversi analisti, il caso in discussione – l'immediata uccisione di un nutrito gruppo di ostaggi israeliani per evitarne il recupero – rappresenterebbe un non trascurabile cambio di strategia da parte di Hamas. Un gioco pericoloso per l'organizzazione stessa, che perderebbe così, a poco a poco, potere negoziale. Ma anche una escalation che potrebbe avere un forte impatto su tutta la guerra e, come dimostrato in questi giorni di forte proteste, sulla percezione che la popolazione israeliana ha di essa. «Che senso ha portare avanti le operazioni militari, se nessun ostaggio ne uscirà vivo?». Sembra questo il dubbio che Hamas è intenzionato a instillare nella società israeliana. E una conferma, in tal senso, viene dal messaggio diffuso dall'organizzazione insieme ai video che ritraggono le ultime parole dei prigionieri uccisi: «Accordo di scambio: libertà e vita. Pressione militare: morte e fallimento».
Abbandonato dai suoi stessi funzionari («Ha fatto naufragare la ripresa dei negoziati», ha affermato qualcuno alla CNN) e bacchettato anche dal Regno Unito, che lunedì ha annunciato – una prima – la sospensione parziale dell'invio di armi a Israele, Netanyahu sembra sempre più obbligato alla scelta: lasciare o raddoppiare? Solo e claudicante, il premier israeliano è da tempo costretto ad appoggiarsi completamente alla stampella ultranazionalista in governo, la stessa che spinge per una presenza permanente a Gaza e per un controllo esteso della Cisgiordania, sostenendone a sua volta le richieste. Non a caso, fra i punti che nelle scorse settimane hanno ingolfato la macchina negoziale v'era proprio la questione del mantenimento di truppe israeliane lungo il corridoio di Filadelfia (fra Egitto e Gaza).
Rimane da vedere, con il terremoto casalingo e le prime vere crepe internazionali comparse a Londra, quanto a lungo durerà un sostegno totale alla guerra.