Il commento

Gli USA e il danno della fiducia

A due settimane dal «Liberation Day» Donald Trump è già entrato nella fase di limitazione dei danni della sua guerra commerciale
Alfonso Tuor
16.04.2025 06:00

A due settimane dal «Liberation Day» Donald Trump è già entrato nella fase di limitazione dei danni della sua guerra commerciale. I dazi sono stati infatti limitati al 10% per tutti i Paesi colpiti ed è stato concesso un periodo di 90 giorni per concludere dei negoziati con Washington; sono stati esentati temporaneamente i telefonini e gli apparecchi elettronici per salvare le società americane dipendenti dalle importazioni cinesi e altrettanto capiterà presto a automobili e alle loro componenti. Ma il presidente americano non riuscirà a limitare il danno maggiore, ossia la perdita di fiducia nei titoli del debito pubblico americano e nel dollaro, indispensabili per finanziare l’enorme debito estero statunitense. Questa è una ferita micidiale che cancella l’eccezionalità dell’economia statunitense, che le permette di vivere al di sopra dei propri mezzi, e che ne intacca ulteriormente il suo statuto di unica superpotenza mondiale con conseguenze geopolitiche di grande rilievo. 

E infatti Donald Trump ha cambiato il suo obiettivo: dalla guerra contro tutti alla guerra contro la Cina e a negoziati con i Paesi europei e asiatici in cui le trattative commerciali per abbassare i dazi verranno accompagnate da sconti se questi ultimi accetteranno di affiancare Washington nello scontro contro Pechino. Ma questa tattica si rileverà vincente? Vi è più di un dubbio. In primo luogo, prolunga l’incertezza su mercati finanziari ed economia mondiale. In secondo luogo, fa emergere i guai che stanno provocando i dazi alle imprese americane, che dipendono dalle importazioni (spesso cinesi) per molte componenti. In terzo luogo, la Cina ha bloccato le esportazioni delle terre rare, indispensabili per industria militare e tecnologica. In quarto luogo, è diventata una potenza anche a livello tecnologico e ha costruito in loco catene di produzione che vanno dall’ultima vite al prodotto finito. In quinto luogo, Pechino ha i mezzi per varare una grande riforma per ampliare la domanda interna. In sesto luogo, mentre negli Stati Uniti si levano le proteste delle società colpite dai dazi; in Cina la guerra commerciale ha creato un’ondata di nazionalismo che rafforza ulteriormente il potere del Partito Comunista. Inoltre, è legittimo interrogarsi sul comportamento nelle trattative con Washington da parte di alleati americani spesso derisi pesantemente da Trump. E in questo caso il pensiero va subito all’Europa terrorizzata dal rischio di essere travolta da un’ondata di esportazioni cinesi. È molto probabile che l’Unione europea non riesca a trovare una posizione comune divisa come è tra coloro che sono presenti in Cina con grandi investimenti produttivi ed export e Paesi per cui il mercato asiatico è meno importante. Quindi la partita è ancora tutta da giocare. Nel frattempo gli Stati Uniti stanno cadendo in recessione ed è probabile che ciò accada anche all’economia europea. Inoltre deve ancora emergere qualche «grosso cadavere» vittima degli alti e bassi dei mercati finanziari. Basti pensare che da inizio anno le riserve in dollari della nostra Banca Nazionale hanno perso 25 miliardi in franchi svizzeri e che, secondo la Banca cantonale di San Gallo, per ogni centesimo di svalutazione del dollaro la BNS perde 3,5 miliardi di franchi. Infine Donald Trump deve ancora far approvare i propri tagli fiscali, ma se non incasserà abbastanza soldi dai dazi questi provvedimenti rischiano di diventare un altro percorso minato per i titoli del debito pubblico americano e per il dollaro. Quindi, nonostante le dichiarazioni di Donald Trump, la strada per limitare i danni è ancora impervia.