I dazi di Trump e le linee di risposta possibili

Cadono le illusioni di molti su Trump, quelle di prima e quelle più recenti. Era sbagliato illudersi nei mesi scorsi che il presidente USA avrebbe mitigato il suo protezionismo assoluto. È sbagliato ora illudersi che basti poco per farlo tornare indietro sui dazi. Anche ammesso che sia disponibile a fare qualche retromarcia reale sulla raffica di dazi di questi giorni, cosa che resta peraltro da dimostrare, Trump sarebbe pronto in ogni momento di questo suo secondo quadriennio a mettere poi di nuovo barriere commerciali, perché questo fa parte della sua più che discutibile visione dell’economia e della politica.
Da anni su queste colonne sottolineiamo quanto sia sbagliata una linea basata sui dazi e più in generale sul protezionismo. Ora siamo a un altro punto di svolta, purtroppo non positivo. Non è retorica, bensì realismo, continuare a indicare quanto le spirali protezionistiche siano negative per tutti, per chi le subisce ma anche per chi le origina. Le reazioni dei mercati finanziari nei giorni passati, con fortissimi ribassi delle Borse, sono state un segnale molto chiaro. Un segnale anche razionale, visto che sono tutt’altro che infondati i timori di recessione non solo USA ma anche internazionale e di risalita dell’inflazione (con i dazi i prezzi naturalmente tendono ad aumentare). La gran parte delle economie nel mondo ha superato la pandemia e ha mostrato una resilienza persino superiore alle aspettative prevalenti. Il rallentamento economico sin qui non si è trasformato in recessione, se non per pochi Paesi. Ma lo stop allo sviluppo del libero scambio e la nuova onda protezionistica di Trump rischiano ora seriamente di frenare maggiormente la crescita mondiale. I numeri mostrati dal presidente USA per giustificare i dazi hanno creato confusione. Il calcolo fatto è abbastanza assurdo, non si possono infatti quantificare i dazi supponendo che il deficit commerciale statunitense con un dato Paese sia originato in ogni caso da barriere economiche dello stesso Paese. Non è detto che sia così, anzi nella gran parte dei casi non è proprio così. Le dinamiche degli scambi commerciali dipendono principalmente dalla competitività dei beni esportati. Molti sostenitori di Trump indicano che c’è un’idea ben ragionata dietro i dazi e che l’obiettivo di fondo resta appunto la riduzione del disavanzo commerciale degli USA (dato da un import superiore all’export). Ma se si vuole ridurre il deficit commerciale le vie fondamentali sono altre e tra queste ci sono per gli USA l’incremento della competitività del proprio export di merci e lo sviluppo ulteriore del proprio surplus nell’export di servizi (attenzione, gli Stati Uniti sono infatti deficitari nelle merci, ma non nei servizi). Qualunque sia l’obiettivo finale di questa dissestata operazione degli Stati Uniti sui dazi – si tratti di vantaggi per Washington nei commerci oppure in altri rami – è abbastanza chiaro che agli interlocutori degli USA, Svizzera inclusa, difficilmente basterà una risposta basata su una sola direttrice di marcia. Per cercare di arrivare a qualcosa, o più realisticamente diciamo per limitare i danni, ci vorranno probabilmente almeno tre direttrici di marcia, da utilizzare insieme o in tempi diversi a seconda delle evoluzioni. Si può tentare di negoziare con l’Amministrazione Trump, e questo è un punto; bisogna però al tempo stesso essere pronti a stabilire anche controdazi, e questo è un altro punto, perché dall’altra parte del tavolo non c’è qualcuno che è felice di negoziare, ma qualcuno che vuole soprattutto imporsi senza mediazioni; inoltre, questo è il terzo punto, occorre far uscire dalla teoria e far entrare nella pratica una azione per potenziare gli accordi di libero scambio già raggiunti con altri Paesi diversi dagli USA e per stipularne dove ancora non ci sono. E questa terza linea di marcia è anche una polizza per il futuro, perché Trump rimarrà per quattro anni.