Taca la bala

Il campione perduto

La storia di Ramon Zenhäusern ci racconta (ancora) la crudeltà dello sport, che in men che non si dica può trascinarti dall’altare alla polvere anche quando apparentemente ti sembra di non aver sbagliato nulla
Tarcisio Bullo
Tarcisio Bullo
07.02.2025 06:00

Scriveva Cesare Pavese che «è necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno». Adesso che si sono iniziati i Mondiali di Saalbach e lui è costretto a seguirli alla televisione, non perché infortunato, ma perché da ormai due anni in gara non gliene va bene una, forse Ramon Zenhäusern realizzerà che probabilmente è sceso davvero nel suo inferno.

A 33 anni, il problema è come lasciare quell’incomoda posizione e ritrovare i fasti di un tempo, gareggiando in una disciplina, lo slalom, che è diventata un tritacarne, non perdona il minimo errore ed è affollata di grandi campioni, almeno una ventina tutti con potenziale da vittoria. Un campione lo era anche il nostro: basti dire che due anni or sono il vallesano vinse due volte uno slalom di Coppa del mondo, a Chamonix e Soldeu, e il suo palmarès parla chiaro: un oro a squadre e una medaglia d’argento nello slalom alle Olimpiadi del 2018, un altro oro a squadre ai Mondiali del 2019, 6 vittorie in Coppa del mondo e 13 podi in totale, terzo posto nella CdM di slalom del 2022-23.

Con Daniel Yule, vallesano come lui, Zenhäusern sul finire del decennio scorso è stato l’artefice della rinascita degli slalomisti rossocrociati, che hanno potuto beneficiare del grande lavoro di Matteo Joris e Didier Plaschy, dopo che per anni i nostri tra le porte strette potevano al massimo ambire ad un piazzamento tra il decimo e il ventesimo posto. Col suo fisico che ricorda più quello di un cestista che quello di uno sciatore, Ramon Zenhäusern (202 cm di altezza e 100 chili di peso) prima di arrivare in alto ha dovuto lavorare indefessamente e sfidare lo scetticismo che lo circondava. Del resto, è stato lui stesso ad ammettere che solo due persone hanno creduto in lui: una è suo padre Peter, l’altra il suo allenatore Plaschy, che quando aveva 16 anni gli pronosticò una vittoria in Coppa del mondo.

Trascinare in maniera vincente il suo fisico da gigante fino al traguardo attraverso le porte strette dello slalom è stata un’autentica impresa, che ha comportato anche una continua rimessa in discussione delle proprie convinzioni. Ragazzo intelligente e sensibile, Zenhäusern tra una gara e un allenamento ha trovato il modo di studiare in privato e laurearsi in economia. Con Didier Plaschy ha svolto un lavoro immenso soprattutto per migliorare la sua mobilità e un’agilità che resta comunque tuttora uno dei punti deboli di questo campione, capace di sfruttare la sua potenza su tracciati non troppo ripidi, dove grazie alla sua mole riesce a produrre velocità.

Tutto questo però appartiene al passato. Il presente ci consegna un atleta sfiduciato che nel corso della stagione solo tre volte (su 9 gare disputate) è riuscito a qualificarsi per la seconda manche (20. a Levi; 30. a Gurgel; 23. a Kitzbühel) e che giustamente non poteva pretendere di essere convocato per un Mondiale dove la Svizzera nutre grandi ambizioni e gareggerà con una squadra di ottimo livello.

La storia di Zenhäusern ci racconta (ancora) la crudeltà dello sport, che in men che non si dica può trascinarti dall’altare alla polvere anche quando apparentemente ti sembra di non aver sbagliato nulla, di continuare a fare il tuo lavoro con l’impegno e la serietà di sempre. A chi gli suggerisce di chiudere qui la sua carriera, lui replica che non se ne parla, nonostante tutto sciare e gareggiare lo diverte ancora, ma certo dovrà tirar fuori un’altra grinta e trovare nuove energie per risalire la corrente. «Sto sciando come un maestro di sci, bello e rotondo, sicuro e stabile. Ma non siamo a scuola di sci, siamo in Coppa del mondo. E tutto questo non basta». Tanti auguri Ramon, la tua disponibilità e simpatia ci mancano.