L’editoriale

Il dopo Biden tra speranze e incognite globali

La rinuncia del presidente a proseguire la sua disastrosa corsa per un secondo mandato alla Casa Bianca sembra aver risvegliato in campo democratico l’entusiasmo e la speranza di un successo
Osvaldo Migotto
23.07.2024 06:00

Se l’attentato dello scorso 13 luglio a Butler contro Donald Trump ha dato grande vigore alla campagna elettorale del tycoon, unendo i repubblicani attorno al loro leader, la rinuncia di Joe Biden a proseguire la sua disastrosa corsa per un secondo mandato alla Casa Bianca sembra aver risvegliato in campo democratico l’entusiasmo e la speranza di un successo nel voto cruciale del 5 novembre. I giochi, evidentemente, sono ancora tutti da decidere, ma non si può negare che le carte in tavola, dopo l’atteso quanto clamoroso ritiro dalla competizione politica dell’attuale presidente statunitense, siano decisamente cambiate. Tanto che Trump, in una delle sue abituali “sparate” ha dichiarato che i repubblicani dovrebbero essere risarciti per i milioni di dollari spesi finora per condurre la loro campagna contro Biden. I segnali positivi per il Partito democratico, dopo la decisione dell’attuale inquilino della Casa Bianca di mettere in campo la sua vice Kamala Harris nel duello con “The Donald”, non sono mancati e non sono trascurabili.

Dopo il passaggio del testimone tra i due leader dem, in poche ore sono stati raccolti quasi 50 milioni di dollari in piccole donazioni a favore della campagna della Harris. Ciò significa che nella base del partito vi è chi crede nella possibilità che una donna appartenente a una minoranza razziale possa conquistare la presidenza. Numerosi “big” del Partito democratico hanno già dato il loro endorsement (appoggio) all’ex procuratrice generale della California che ora  a livello di sondaggi appare in grado di far risalire la china ai democratici. Non è però tutto oro quello che luccica; se per ora alcuni potenziali rivali della vicepresidente hanno deciso di schierarsi con lei, bisognerà attendere la benedizione ufficiale da parte dei vertici del partito e infine la convention democratica di Chicago, che inizierà il 19 agosto, per capire se Kamala Harris riuscirà a raccogliere un ampio appoggio dal suo schieramento politico. Un appoggio indispensabile per avere buone chance nella battaglia decisiva del 5 novembre contro Donald Trump. Per ora, al di là dell’entusiasmo che la discesa in campo della Harris ha suscitato tra un certo numero di cittadini americani, nel Paese domina una grande incertezza su come procederà lo scontro elettorale tra democratici e repubblicani. Un’incertezza che, in un mondo globalizzato, si estende ben oltre i confini statunitensi. E sono diversi i capi di Stato stranieri che già mettono in conto una possibile vittoria di Trump. Lo stesso presidente ucraino Zelensky, che in passato non ha mai avuto rapporti amichevoli con il tycoon, conscio di una possibile svolta a Washington ha avuto in questi giorni un colloquio telefonico con l’ex presidente repubblicano per perorare la causa del sostegno militare americano a Kiev. Anche tra i partner europei dell’Alleanza Atlantica si cerca di muoversi, a livello di difesa militare, mettendo in conto un possibile successo di Trump nelle elezioni di novembre.

Una vittoria che, stando alle dichiarazioni poco amichevoli del tycoon nei confronti degli alleati europei della NATO, si tradurrebbe con ogni probabilità in un minor sostegno militare da parte di Washington. Il leader dei repubblicani è da anni che sollecita gli alleati europei ad incrementare i loro investimenti nel settore degli armamenti. Solo con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia i partner europei dell’Alleanza Atlantica hanno capito che l’aumento delle spese militari era diventata un’esigenza reale. La maggior parte dei Paesi membri ha così dedicato crescenti risorse alla prontezza operativa delle rispettive forze armate. Ma non sarà solo sul fronte militare che le decisioni di Washington avranno delle ripercussioni al di qua dell’Atlantico. Trump, con il suo decisionismo basato sulla parola d’ordine “America first” (prima l’America), non si farebbe scrupoli ad introdurre dazi o altri strumenti in grado di nuocere alla concorrenza economica del Vecchio Continente. Non bisogna però illudersi che una presidenza democratica sia molto più clemente nei confronti dell’Europa per quanto riguarda la concorrenza in ambito economico. L’incertezza del dopo Biden si estende dunque ben oltre gli USA.