Il doppio deficit a stelle e strisce
La vecchia politica economica americana è morta, ma all’orizzonte non se ne vede una nuova in grado di sostituirla. Infatti anche in questa campagna elettorale le virtù magiche della globalizzazione non sono state evocate, così come non sono mai state avanzate proposte per una maggiore integrazione dell’economia mondiale. Eppure tutti sanno che i problemi statunitensi si chiamano deficit pubblico e deficit commerciale. Mentre sul primo durante questa campagna elettorale hanno steso un pietoso velo di silenzio ed hanno anzi formulate politiche che ne prevedono un forte aumento contando sulla banca centrale deputata a continuare ad acquistare l’eventuale offerta di titoli pubblici che non venisse assorbite dal mercato: sul disavanzo commerciale non sono mancate le proposte, anche perché le ferite sociali e politiche della globalizzazione ancora sanguinano soprattutto in alcune regioni del grande continente americano.
Il disavanzo commerciale non è mai stato un problema economico per gli Stati Uniti. Infatti esso è stato pagato grazie al privilegio di un dollaro, moneta mondiale, e ai finanziamenti delle banche americane (le banche sono le principali creatrici di moneta, mentre la banca centrale interviene per fermare le eventuali carenze e/o crisi dei mercati finanziari). E infatti fino alla campagna elettorale del 2016 che portò Donald Trump alla Casa Bianca le ferite che stava infliggendo la globalizzazione sul tessuto sociale ed industriale americano erano ignorate sia dai repubblicani sia dai democratici. La vittoria di Trump spazzò questo consenso, che venne sostituito dalla promessa di una rinascita attraverso misure protezionistiche e dall’individuazione della Cina quale responsabile dei guai americani. Negli ultimi quattro anni l’amministrazione Biden non ha cancellato alcun dazio doganale deciso da Trump e nel frattempo ha varato grandi piani per reindustrializzare il Paese nel campo delle tecnologie green (pannelli solari, batterie e motori elettrici) e in quello dei semiconduttori (i famosi chips). Lo sforzo (sebbene solo alle battute iniziali) non sembra dare risultati. Ad esempio, la fabbrica di TMSC è in forte ritardo, poiché in Arizona non si trovavano lavoratori preparati e si sono dovuti importare gli impiegati cinesi da Taiwan per sperare di recuperare il tempo perso. La candidata democratica Kamala Harris propone la continuazione di questo approccio, ben sapendo che gli Stati Uniti dispongono già di ampi strumenti di politica industriali, che vengono tenuti «nascosti» ed in primis la grande ricerca di base, che non è solo militare, finanziata dal Pentagono e quella aereo spaziale della NASA, la cui immagine negli ultimi tempi si è molto appannata. Se il problema dell’industria americana è di competitività, basterebbe una forte svalutazione del dollaro, ma ciò è certamente impossibile per il niet di Wall Street che rischierebbe di intralciare la corsa verso gli attivi finanziari statunitensi, che permettono agli americani di vivere al di sopra dei loro mezzi. La strategia di Donald Trump è molto più spiccia: dazi su tutte le importazioni (anche dai Paesi amici, come quelli europei) del 10% poi salito al 20% e del 100% sulle importazioni cinesi. I dazi permetterebbero di salvarsi a settori in difficoltà, come quello siderurgico, ma molto meno chiaro è l’impatto sui prezzi. Infatti se gli importatori riducessero utili e salari, i prezzi non si muoverebbero. Solo se il prezzo delle importazioni aumentasse, ci potrebbe essere la desiderata rinascita dell’industria americana. Imprevedibili sono invece le conseguenze sul dollaro, anche perché i Paesi esportatori potrebbero imporre a loro volta dazi sulle importazioni americane e quindi avviare una guerra commerciale.
In conclusione, non vi è alcun programma convincente per risolvere il problema del doppio deficit pubblico e commerciale americano. Sia Kamala Harris sia Donald Trump si affidano alle virtù taumaturgiche del dollaro. Finora questa politica ha avuto successo, ma è impossibile prevedere fino a quando il biglietto verde continuerà a mantenere il suo statuto di moneta mondiale, anche perché alcuni Paesi sono intenzionati a incrinare questo primato.