Il commento

Il paradosso americano

Se la quota statunitense del PIL mondiale è ancora la maggiore, e se la crescita degli USA ora resta robusta, ciò è dovuto non solo ma anche allo sviluppo complessivo del libero scambio negli ultimi tre decenni
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
07.02.2025 06:00

Gli Stati Uniti sono stati tra i principali beneficiari della globalizzazione economica. Se la quota americana del PIL mondiale è ancora la maggiore, e se la crescita degli USA ora resta robusta, ciò è dovuto non solo ma anche allo sviluppo complessivo del libero scambio negli ultimi tre decenni. Tra quelle avanzate, l’economia statunitense è infatti la più adatta, per dimensioni ma anche per propensione all’iniziativa d’impresa, a utilizzare con vantaggio un quadro di scambi economici più ampi. Anche tra le economie emergenti, a cominciare dalla Cina, c’è chi ha avuto molti benefici dalla globalizzazione. Ma lì il discorso è in parte diverso, perché si è trattato della conquista di un terreno che prima non avevano.

Gli USA erano già leader prima e lo sono rimasti, senza alcuna offesa per un’Europa che nel complesso non ha avuto la stessa velocità ma che resta importante. È dunque paradossale che proprio dagli Stati Uniti venga, specie con il ritorno alla presidenza Trump, una nuova offensiva all’insegna di dazi e barriere. Della serie: quando gli assetti politici entrano in rotta di collisione con quelli economici. Lo si era già visto durante il primo quadriennio di Trump, le cui conseguenze sul versante dazi sono state poi solo mitigate, non cancellate dalla presidenza Biden. Sia in politica sia in economia ci sono oggi due posizioni principali al riguardo: c’è chi ritiene che Trump usi i dazi solo per negoziare e ottenere vantaggi in vari campi; c’è chi ritiene che la sua idea di fondo è proprio quella del protezionismo e che, dazi di qui e dazi di là, alla fine qualche barriera in più rimane.

Se si dovesse giudicare sulla base della prima presidenza di Trump, bisognerebbe dire che questa seconda posizione è più aderente alla realtà. Se questa volta così non sarà, ci lasceremo stupire. Intanto occorre ricordare sempre alcuni fondamentali sugli effetti del protezionismo. Dazi e barriere non sono mai veramente scomparsi, ma dall’inizio degli anni Novanta e per circa 25 anni sono stati limitati. Il libero scambio non si è mai totalmente affermato, ma nel periodo ha registrato un ampliamento. E i vantaggi economici si sono visti. Come nella vita, anche nella globalizzazione c’è chi ha guadagnato di più e chi di meno, ma il livello complessivo si è alzato. La narrazione prevalente sui pochi vincenti e i molti perdenti nella globalizzazione non ha le basi giuste. Occorre tenere ben presente, tra l’altro, che nell’epoca precedente i perdenti, quelli veri, erano decisamente di più.

Tornare ad aumentare il protezionismo, con una spirale di mosse USA e di contromosse di chi viene colpito, è un errore che non tiene conto delle molte esperienze già fatte. Non è un luogo comune dire che alla fine ci rimettono tutti. I commerci mondiali, come si è visto dal 2017 in poi, in misura più o meno forte vengono frenati, con riflessi negativi sulla crescita economica, che si è mostrata resiliente ma che potrebbe andare ancor meglio se la geopolitica fosse meno pesante e se il protezionismo diminuisse. Gli stessi USA, e qui torniamo al paradosso, se ci sarà spirale saranno tra i più colpiti. Il deficit commerciale americano nel lungo periodo non si riduce con i dazi sull’import, bensì rendendo ancor più competitivo l’export di merci statunitensi (questo è il lato su cui agire) e rafforzando ulteriormente i commerci di servizi (dove gli USA hanno già un surplus). La via di dazi e barriere maggiori non è la soluzione e comporta in sovrappiù rischi concreti di prezzi più alti e di ritorno dell’inflazione, e quindi di stop ai tagli dei tassi di interesse. Se la rotta sarà davvero quella dell’aumento dei dazi, ci sarà anche un aumento dei problemi, per tutti.