Il Pardo finisce nella gabbia delle lingue
Sarebbe bello se il Pardo, inteso come Locarno Film Festival, potesse solo ruggire. Il problema si pone, a volte, quando deve parlare, comunicare con una comunità vasta e sempre più eterogenea come quella costituita dal suo pubblico. In che lingua è meglio che ruggisca, pardon, che parli il Pardo? Nell’ormai irrinunciabile inglese, lingua franca bistrattata a volte in maniera abominevole da accenti quasi incomprensibili o da incolmabili lacune grammaticali e sintattiche? Nell’italiano che è parte integrante delle proprie radici culturali e geopolitiche, oppure in un’altra lingua nazionale come il francese, adottata in passato ma che ha ormai perso il suo ruolo di passe-partout a livello nazionale ed europeo? La questione non è certo nuova di zecca (ne avevamo scritto al termine di Locarno 2024), ma va dato merito ai quattro circoli del cinema ticinesi di averla posta nei giorni scorsi in una lettera aperta a cui i responsabili del Festival hanno subito fornito una risposta solo in parte soddisfacente.
Ciò che è auspicabile, alla luce di un dibattito senza polemiche tra entità accomunate dall’amore per il (buon) cinema, è che qualche correttivo venga apportato rispetto a quanto accaduto nel corso dell’ultima edizione che, sotto questo punto di vista, è stata caratterizzata da situazioni poco comprensibili. Che senso ha, ad esempio, far dialogare in inglese sul palco, al termine di una proiezione pubblica, una regista e una moderatrice italofone? Oppure presentare una retrospettiva di eccezionale qualità come quella dedicata al centenario della Columbia, zeppa di proiezioni senza alcun tipo di sottotitolo o di traduzione simultanea, quando si trattava di film che andavano non solo visti ma anche compresi, non solo dalla minoranza anglofona presente in sala. Errori che speriamo non vengano più ripetuti già a partire dalla prossima edizione del Festival. Le parole d’ordine, in questo campo dovrebbero infatti essere flessibilità e rispetto. Capacità di adattarsi alle specificità delle singole situazioni, adottando di volta in volta anche le lingue delle delegazioni presenti (soprattutto se europee) senza però mai scordare la forte componente italofona tra gli spettatori paganti. L’inglese deve invece essere prioritario come lingua ufficiale di tutti gli eventi riservati ai professionisti dell’audiovisivo, mentre l’esempio già oggi virtuoso (ma difficilmente replicabile) viene dalla comunicazione scritta del Festival (catalogo e comunicati stampa) che è perfettamente quadrilingue (inglese e tre idiomi nazionali).
In attesa che (non osiamo nemmeno immaginare in che modo) l’intelligenza artificiale riduca a infima inezia anche questo problema che oggi pare di difficile soluzione, ai responsabili del Locarno Film Festival si può consigliare di seguire, almeno per una volta, l’esempio dei francesi. Attaccatissimi alla propria cultura e alla propria lingua al punto da creare ogni sorta di neologismo pur di non adottare pedissequamente nuovi termini anglofoni, persino in un contesto ancora più complesso di Locarno come il Festival di Cannes, hanno individuato un buon punto di equilibrio tra le lingue utilizzate nei momenti pubblici. Il francese è sempre in primo piano, mentre quando entrano in scena altri idiomi (inglese compreso) la traduzione simultanea è sempre presente. Gli interventi si allungano? I costi aumentano? Tempo e soldi ben spesi verrebbe da dire, perché in ambito culturale il dialogo è essenziale e per dialogare correttamente bisogna capirsi.