Il presidente degli Stati Uniti
Il presidente degli Stati Uniti d’America è stato eletto dopo una lunga campagna elettorale non priva di eccessi, non solo verbali. Comunque un esercizio di innegabile carattere democratico che ha coinvolto milioni di cittadine e cittadini.
Il risultato è stato chiaro e non permette velenosi dubbi: il 50,4% (312 grandi elettori) per l’eletto ed il 48% (226 grandi elettori) per l’avversaria.
Il Partito repubblicano ha ottenuto pure la maggioranza dei seggi nell’elezione per il Senato (53 contro 47) e lo stesso si prevede per il Parlamento. Ciò assicura una migliore stabilità politica. I clamori dei comizi sono terminati, l’esagerazione delle affermazioni ed accuse reciproche impallidiscono, si passa alla necessità della gestione del Paese: si apre il tempo della «Realpolitik», delle esigenze quotidiane e futuribili. Ho dichiarato mesi fa il mio scetticismo nei confronti dei due candidati che consideravo, per ragioni diverse, inadeguati. Ma il presidente non lo eleggo io bensì il popolo americano.
Un atto di signorile realismo politico quello del presidente uscente Biden che ha riconosciuto la sconfitta e assicurato la collaborazione nella transizione dei poteri grazie alla quale noi svizzeri ci liberiamo dal querulo, indisponente, arrogante ambasciatore Scott Miller che non perdeva occasione sulla nostra stampa di impartirci lezioni di comportamento. L’ambasciatore USA da noi non è un diplomatico di carriera ma qualcuno premiato per l’aiuto dato al presidente eletto durante la campagna elettorale. Nel caso di Scott Miller il contributo finanziario del suo facoltoso marito a Biden a suo tempo.
Il presidente Trump non è un politico, non viene dalla militanza di Partito né dalla presenza nei consessi legislativi. È un uomo d’affari e oggi a dadi tratti non ha molto senso aggiungere qualifiche. Non solo, ma chi ha avuto contatti con lui sottolinea la differenza tra il suo porsi quale discusso showman all’americana quando appare in pubblico ed il modo professionale e preparato con il quale partecipa a trattative e negoziazioni. Lo conferma con una intervista sulla «Neue Zürcher Zeitung» l’ambasciatore svizzero negli USA durante la passata presidenza Trump, Martin Dahinden.
Potrà piacere o meno ma questa è la realtà nella quale abbiamo a che fare non con un politico e intellettuale quale Obama, ma con un uomo d’affari intenzionato a far valere gli interessi del suo Paese. Inutile chiedersi e dibattere se è un bene o un male: è così.
Da questo punto di vista come Svizzera abbiamo qualche freccia all’arco. Innanzitutto il fatto di essere degli importanti investitori negli USA che originano, ricorda l’ambasciatore Dahinden, 300.000 posti di lavoro negli USA. Siamo quali investitori più importanti di Francia e Italia. Trump predilige trattative e negoziazioni tra Stato e Stato agli accordi multilaterali che non rientrano nella sua visione centro statunitense. Potrebbe essere meglio per noi. Speriamo sia la volta buona per concludere l’accordo per il libero scambio USA-Svizzera. Le trattative iniziate ai tempi della prima presidenza Trump si sono arenate per mancato interesse dell’amministrazione Biden.
Non va dimenticato che uno Stato enorme e ramificato quale gli USA, con una potente vasta burocrazia, la presenza di vari poteri forti, non è retto in prima persona e autocraticamente dal presidente. Il potere è diffuso anche per le diverse competenze - vedi quella giudiziaria - e per l’influenza sul territorio dei singoli Stati federali.
Sarà pertanto importante per noi svizzeri seguire la strutturazione che verrà data alla nuova Amministrazione, vedere quali le persone che saranno chiamate a gestire il potere ai diversi settori e livelli, l’equilibrio tra le differenti frazioni e correnti.
Poi sarà successivamente necessario saper stabilire da parte nostra, anche ai piani inferiori, quei rapporti personali che facilitano non solo i contatti ma sono premesse per ragionevoli atteggiamenti e per poter venir ascoltati al fine di iniziare future trattative con gli USA. Indispensabile sarà pure l’aggancio con qualcuno che domina il campo delle pubbliche relazioni. In America i migliori professionisti costano ma contano.
Trattare con gli USA non è facile e gli scontri possono essere brutali. Gli interessi della farmaceutica in una realtà americana mobilitata contro i prezzi eccessivi, i pretesti per condizionare l’attività delle nostre banche e la concorrenza della nostra piazza, che rammentano le sgradevoli esperienze di nostri istituti di credito con il Dipartimento di Giustizia americano accompagnate da multe che sembravano taglie, testimoniano quanto impegnative saranno le negoziazioni. Auguriamoci che agli americani non venga la tentazione di farci acquisire gli aerei F-16 piuttosto vecchiotti. Le nostre capacità negoziali e la validità della rete di sostegno locale che dobbiamo costruire saranno determinanti per i risultati.
Il tempo degli appoggi e dell’inclinazione per l’uno o l’altro dei candidati è superato. Inizia il difficile compito al di là di pregiudizi, simpatie e antipatie della intelligente difesa dei propri interessi. Per la quale non contano emozioni o sentimenti, importanti saranno i rapporti stabiliti e l’abilità nel gestirli.