Il Salone del mobile tra commercio e finanza

In piena contraddizione con le previsioni catastrofiche della maggior parte degli osservatori sulle sorti del commercio internazionale, il Salone del mobile di Milano-Rho, chiusosi lo scorso 13 aprile, nei sei giorni di apertura ha fatto registrare queste cifre: 2.103 espositori da 37 paesi; 302.548 visitatori, il 68% dei quali stranieri provenienti da 151 paesi.
Rispetto ai 370.000 del 2024 (anno caratterizzato però dalla mostra speciale su cucina e bagno), i visitatori sono senza dubbio diminuiti ma non nella misura che si era temuto e che ci si poteva attendere a seguito dell’attuale situazione di sconquasso delle relazioni economiche internazionali. È inoltre quanto mai significativo che i visitatori provengano da così tanti e diversi paesi: 151 sui 193 che se ne contano nel mondo, compresi oltre una ventina di minuscoli stati insulari.
Al Salone si aggiungono poi gli eventi in città, il cosiddetto Fuori Salone, tra cui ad esempio la mostra di Interni nei chiostri dell’Università Statale di via Festa del Perdono visitata da 250.000 persone.
Al primo posto tra i visitatori stranieri del Salone restano i cinesi, seppure in marcato calo rispetto all’edizione 2024. Seguono nell’ordine quelli dalla Germania, Spagna, Polonia, Brasile, Russia, Francia, Stati Uniti, India e Svizzera. Sorprende il numero di visitatori dalla Russia, soggetta alle sanzioni inflittele dall’Unione Europea. In proporzione ai suoi abitanti la Svizzera è stata, come si vede, al primo posto tra i dieci paesi con il maggior numero di visitatori.
La principale lezione che si può allora ricavare dal successo del Salone è a mio avviso che le ragioni del commercio mondiale sono più forti di qualsiasi turbolenza in campo finanziario e fiscale, comprese quelle certamente gigantesche che Trump sta provocando nel tentativo di riorganizzarlo in un modo diverso dall’attuale.
Al di là dei modi del suo progetto, la cui efficacia è ancora da dimostrare, e dello stile guascone col quale ne parla, ciò cui Trump mira è a riportare nei paesi più sviluppati buona parte della manifattura per il consumo, che negli ultimi decenni si sta trasferendo in quei paesi dell’emisfero Sud dove il costo del lavoro è particolarmente basso. Finora resta saldamente nei paesi più sviluppati soltanto la produzione di armamenti per ovvi motivi di sicurezza e anche grazie all’alto prezzo spuntato del prodotto, che per natura sua ha un mercato assai ristretto e poco soggetto alla concorrenza. Questo però è uno sviluppo evidentemente pericoloso poiché l’industria degli armamenti per natura sua spinge verso la guerra. E tale spinta diviene tanto più forte quanto più notevole è il suo peso all’interno dell’economia di un paese.
Il mobile, e in genere i prodotti per l’arredamento, hanno caratteristiche di qualità così elevate che le loro produzione non è facilmente decentrabile ed esige una prossimità fisica e culturale molto forte con il mondo del design. Perciò la loro industria è molto meno tentata all’esodo della produzione verso i paesi a basso costo del lavoro. Resta da vedere in quale misura è possibile che in altri molti settori nei paesi più sviluppati la produzione possa venire orientata in simili direzioni.
Resta poi il gigantesco problema della Cina, che da sempre vuole vendere sui mercati internazionali, ma non comprare. Prima che politico il problema è culturale. Da sempre i cinesi, percependosi come al centro del mondo (Cina in cinese vuol dire «Paese centrale»), sono restii a consumare prodotti stranieri e ritengono di non averne bisogno. Sin dall’antichità la Cina vende solo in cambio di moneta. Alla fine del Medioevo l’Europa era perciò rimasta quasi senza oro e si salvò soltanto grazie alle ingenti miniere del prezioso metallo che trovò in America. Dopo la scoperta dell’America la Cina restò per secoli ai margini del commercio internazionale fino a quando nel 2001 venne ammessa nell’Organizzazione mondiale del Commercio, WTO. Da allora il problema si è riproposto.