Il tentato assassinio di Donald Trump e quella bravura nel fare limonate
«Se la vita ti dà limoni, fanne una limonata», dice un adagio americano. Il consiglio è chiaro: sii in grado di vedere e sfruttare gli aspetti positivi di ogni situazione, anche la più aspra.
Se c’è qualcosa che pure un incallito detrattore deve riconoscere a Donald Trump, è proprio questo: la sua capacità di cogliere l'attimo, spremendo il massimo da ogni occasione.
Lo ha dimostrato 8 anni fa quando – subodorato il malcontento degli americani – era stato in grado di cavalcare un animale pericoloso, quello populista, per trascinare una ben più preparata Hillary Clinton nella polvere e vincere l’improbabile corsa alla Casa Bianca.
A maggior ragione lo farà oggi, dopo l’arrivo di un proiettile che per centimetri (o anche meno) ci permette di parlare soltanto di «tentato» assassinio. Nel bene e nel male, del resto, le immagini prontamente diffuse dai media americani sono già passate alla Storia. L’orecchio destro improvvisamente insanguinato, gli agenti di sicurezza che subito lo attorniano, lui che – a terra nel marasma – chiede: «Lasciatemi prendere le scarpe». E poi eccola, la capacità di fare una limonata: la lucidità di alzare il pugno al cielo, incitando la folla. Non c’è dubbio: al netto del grosso, grossissimo pericolo corso a Butler, Pennsylvania, Donald Trump saprà sfruttare l’occasione per accrescere il consenso fra sostenitori e oppositori.
In condizioni simili, seppur non identiche, lo aveva già fatto Ronald Reagan. L'attore era presidente (entrato in carica il 20 gennaio 1981) e non candidato, quando – il 30 marzo 1981 – scampò per pochissimo a un attentato. Un attacco non dettato da ragioni politiche, ma con il quale, come allora sottolineato dal giornalista del Washington Post David Broder, Reagan aveva guadagnato l'indefesso supporto degli americani: «Una nuova leggenda è nata. Finché la gente ricorderà il presidente ricoverato che scherzava con i suoi medici e infermieri - e lo ricorderà - nessun critico potrà dipingere Reagan come un uomo crudele, insensibile o senza cuore». La voglia di scherzare non venne mai meno a Reagan, che nel 1987 – interrotto nel bel mezzo di un discorso dallo scoppio di un palloncino – liquidò con uno scanzonato «missed me», mancato, le paure di un secondo attentato.
È un ricordo, quello di quanto accaduto al presidente-attore, che in queste ore sarà già venuto a noia ai lettori. Eppure rende bene l'idea di somiglianze e, soprattutto, differenze fra il clima che regnava negli anni Ottanta e quello di cui oggi sono preda gli Stati Uniti.
Complice la forte connotazione politica dell'attentato a Trump – il fatto che sia avvenuto durante un comizio lascia poco spazio a interpretazioni – nessuno ha più voglia di scherzare. Peggio: nonostante il pronto intervento del presidente Joe Biden e di altri leader democratici, che immediatamente hanno condannato ogni forma di violenza politica e assicurato il proprio supporto al rivale, il Paese non sembra pronto ad abbandonare la propria polarizzazione.
Nessun abbraccio: anche nella disgrazia (un morto e due feriti, al momento, il bilancio fra gli spettatori del comizio) i fronti mantengono una granitica solidità, mentre alcuni alleati di Trump – fra questi anche uno dei papabili alla vicepresidenza, il senatore J.D. Vance – sembrano anzi disposti a scavare ulteriori fossati: «Quanto avvenuto oggi non è un incidente isolato. La premessa centrale della campagna di Biden è che il presidente Donald Trump è un fascista autoritario che deve essere fermato a tutti i costi. Questa retorica ha portato direttamente al tentativo di assassinio», ha affermato su X il politico dell'Ohio.
Per chi ha seguito, negli ultimi mesi, il discorso elettorale, non sarà difficile distinguere fra piromane e pompiere. Ma parafrasando un altro detto, chi semina... limoni raccoglie limoni. Fino a quando il gioco delle divisioni reggerà? A lungo andare, pure la miglior limonata può far male, o scatenare violenze diffuse. Il 6 gennaio 2021 insegna.