Il commento

La fine del grande boom cinese

Non sorprende che la Cina debba oggi fare i conti con la deflazione, ossia con il calo dei prezzi soprattutto dei prodotti industriali
Alfonso Tuor
24.01.2024 06:00

È finito il lungo boom economico della Cina? Pechino è destinata a ripercorrere le orme del Giappone che dopo il crollo del mercato immobiliare e di quello azionario nel 1989 sta forse solo ora uscendo da un lungo periodo di deflazione e di bassa crescita? Le difficoltà economiche e il crollo della natalità sono destinati ad alterare il confronto geopolitico con gli Stati Uniti? È il Covid apparso alla fine del 2019 proprio in Cina, per l’esattezza a Wuhan, a segnare la fine della lunga corsa dell’economia avviata dalle riforme di Deng Xiao Ping negli anni Ottanta del secolo scorso. Grazie a tassi crescita annui del 10% nel giro di quarant’anni il Paese si trasforma: da nazione molto povera con livelli di reddito paragonabili a quelli dell’attuale Corea del Nord diventa la «fabbrica del Mondo» e raggiunge nelle regioni costiere un benessere paragonabile a quello dei Paesi occidentali. La decisione di combattere la pandemia con l’ordine a milioni di persone di restare rinchiusi nelle loro case segna la fine di questo miracolo e inoltre fa emergere in tutta la sua gravità la crisi del mercato immobiliare. La fine della politica del Covid zero, imposta ai vertici del Partito comunista dalle manifestazioni di piazza nelle principali città del Paese, non coincide però, come era invece accaduto nei Paesi occidentali, con una forte ripresa dei consumi e dell’intera attività economica. Ciò spiega il fatto che il primo ministro Li Qiang ha annunciato negli scorsi giorni a Davos come un successo una crescita solo del 5,2% l’anno scorso. Ma questo è nulla, poiché ovunque si manifestano i segni della crisi del mercato immobiliare con i fallimenti di alcune grandi società del settore, come Evergrande e Country Garden, e le difficoltà di alcune società di gestione patrimoniale, che sono il cuore del settore finanziario ombra cinese. Inoltre la disoccupazione giovanile raggiunge il 21%, un dato talmente imbarazzante che Pechino ordina che non venga più pubblicato. Ma soprattutto quello che sparisce è il generale grande ottimismo della popolazione, che era stato il vero motore del boom dei decenni precedenti. Il pessimismo si diffonde anche perché Pechino non reagisce con un grande piano di rilancio, ma con misure puntuali ma necessarie, come quella di dare soldi agli enti locali il cui indebitamento è talmente esploso da obbligare a decurtare e/o azzerare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Non sorprende quindi che la Cina debba oggi fare i conti con la deflazione, ossia con il calo dei prezzi soprattutto dei prodotti industriali. Quindi si può sicuramente affermare che il grande boom cinese è finito e che il Paese rischia di seguire le orme del Giappone se il Partito comunista non varerà un forte piano di rilancio. Il calo della natalità non è invece un fenomeno nuovo, come conferma la fine della politica del figlio unico nella seconda metà dello scorso decennio, ma si è rafforzato con l’apparizione del Covid. L’anno scorso le nascite si sono fermate a 9 milioni, contro i 9,6 milioni del 2022, mentre i decessi sono aumentati anche a causa della pandemia e hanno raggiunto 11 milioni. Dunque la Cina non è più il Paese più popoloso del mondo. I motivi sono uguali a quelli occidentali: i figli costano troppo e implicano un impegno troppo gravoso soprattutto se la coppia lavora.

Comunque è il confronto con gli Stati Uniti che spiega la decisione di non varare un grande piano di rilancio, come invece era stato fatto dopo la crisi finanziaria del 2008. Infatti Pechino ha destinato il grosso degli investimenti pubblici nel finanziamento della ricerca e delle industrie attive nel campo delle nuove tecnologie (tecnologie dell’informazione, intelligenza artificiale, biotecnologie, fonti energetiche alternative, ecc.) che però producono effetti solo a lungo termine. Appare ovvio che si tratta di una reazione ai crescenti divieti americani alla vendita alla Cina di prodotti sofisticati e dal possibile uso militare. E molto probabilmente tali investimenti riguardano anche le forze armate, come conferma l’annuncio di incrementare l’arsenale nucleare. Queste scelte indicano chiaramente che Pechino non intravvede alcun miglioramento nelle relazioni con Washington e che quindi sta convintamente intraprendendo una vera e propria gara con gli Stati Uniti nelle nuove tecnologie. Insomma, si sta preparando ad un periodo in cui gli scambi commerciali e tecnologici con l’Occidente diventeranno sempre più difficili, ossia si attrezza ad una nuova versione della guerra fredda.