La forza del franco nel mirino della BNS
Sono tre i motivi per cui una banca centrale riduce i tassi d’interesse guida: stimolare l’economia; evitare la deflazione e mantenere la competitività della valuta. Un taglio dei tassi rende il credito più economico, incentivando famiglie e imprese a contrarre prestiti. Questo dovrebbe dare una spinta agli investimenti e ai consumi facendo crescere l’attività economica. Ciò è ancora più vero in un periodo - come l’attuale - di crescita lenta o di recessione.
La seconda ragione di un allentamento monetario è legata al livello generale dei prezzi. Se l’inflazione è troppo bassa (ricordiamo che esiste anche un’inflazione «buona», quella creata entro certi limiti da una crescita armoniosa dei redditi e della produzione di beni e servizi) o si teme una deflazione, ovvero un calo generale di prezzi e salari, abbassare i tassi può favorire un aumento della domanda e, di conseguenza, una crescita dei prezzi.
Il terzo motivo è di natura valutaria. Un costo del denaro più basso può indebolire la moneta emessa dalla banca centrale, rendendo più competitiva la produzione di beni e servizi nazionali esportati successivamente sui mercati internazionali. La decisione di giovedì scorso della Banca nazionale svizzera (BNS) di dimezzare il costo del denaro è dovuta più a quest’ultimo fattore. Ma andiamo con ordine.
La crescita economica svizzera è sì a livelli al di sotto del proprio potenziale, ma è comunque più dinamica (si stima tra l’1 e l’1,5%) rispetto a quella di altre economie vicine. L’Eurozona, per esempio, principale mercato di sbocco dei prodotti svizzeri, complice la crisi economica tedesca, è messa molto peggio e nella migliore delle ipotesi quest’anno crescerà mediamente - nel suo complesso - dello 0,7%. È pochino per una delle principali aree economiche del pianeta. Non è quindi solo la debole crescita svizzera ad aver convinto il direttorio della BNS a tagliare il tasso guida.
Rimane il franco forte, nei confronti soprattutto dell’euro e del dollaro, quale ragione principale di un intervento così massiccio. Da sempre croce e delizia dell’economia svizzera, il franco ha fatto da barriera all’inflazione importata moderando l’aumento dei prezzi delle materie prime tra il 2021 e il 2023, quando la fiammata inflazionistica ha fatto la sua comparsa a livello internazionale. Ora però diventa una zavorra per le esportazioni.
Ma gli interventi sul mercato dei cambi sono un coltello a doppia lama non sempre facilmente manovrabile. La moneta svizzera è ricercata storicamente per varie ragioni. È un porto sicuro quando l’instabilità internazionale monta, come sta accadendo in questo particolare periodo storico tra conflitti armati e riassetti geostrategici, ma è anche utilizzata da chi pratica il cosiddetto carry trade: indebitarsi in prodotti finanziari denominati in una valuta a basso tasso d’interesse e investire in altri, espressi in altre valute (dollari o euro) a rendimento più alto lucrando sul differenziale tra i tassi d’interesse.
Inoltre, i fondamentali macroeconomici svizzeri sono più che positivi e non giustificano una moneta più debole. L’avanzo commerciale è solido. L’anno scorso è stato di quasi 50 miliardi di franchi e dovrebbe confermarsi globalmente anche per quest’anno alimentato dal comparto chimico-farmaceutico poco sensibile al prezzo con l’eccezione del settore MEM (metallurgia, elettronica e meccanica) che risente non solo del cambio ma soprattutto della difficile congiuntura europea. L’indebitamento pubblico, infine, è tra i più bassi dei Paesi occidentali come pure il deficit rispetto al PIL. La forza del franco rispecchia tutto questo. Fino a quando l’Europa non uscirà dalle secche di una crescita economica anemica - fatto improbabile nel medio e breve termine - non si può sperare in un rafforzamento dell’euro nei confronti del franco.