La lezione dimenticata del crollo della Lehman
Gli impiegati che uscivano con gli scatoloni in mano incarnarono loro malgrado l’icona del disastro bancario del secolo. Ed è l’immagine che ci resta del fallimento della Lehman Brothers avvenuto esattamente 15 anni fa e che segna, in realtà, la data d’inizio di una delle più gravi crisi finanziarie della storia occidentale che portò alla «Grande Recessione» globale. Un fallimento che giunse apparentemente come un fulmine a ciel sereno. Indizi che il castello di carta costruito con una montagna di debito e prodotti finanziari poco trasparenti stesse per crollare erano giunti già nei mesi e anni precedenti, ma non furono colti da autorità di vigilanza e governi vari.
Un anno prima, il 14 settembre, la banca britannica Northern Rock si trovò a fronteggiare una corsa agli sportelli di proporzioni bibliche. Solo il giorno precedente l’istituto aveva annunciato perdite miliardarie scatenando un calo della fiducia e spingendo i clienti al ritiro dei propri risparmi. La Banca d’Inghilterra fu costretta a fornire miliardi di liquidità aggiuntiva per cercare di calmare la situazione. Non bastò. L’anno successivo il governo inglese la nazionalizzò. Un film che somiglia molto a uno visto recentemente anche in Svizzera nel caso del salvataggio di Credit Suisse. In questo caso, però, il ruolo dello Stato lo ha interpretato in parte UBS. Ma bisogna fare un ulteriore passo indietro per capire la genesi di quello che avvenne in quegli anni. Lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti aveva messo sotto pressione le istituzioni finanziarie che avevano concesso cosiddetti mutui subprime. Si trattava di prestiti dati a persone che non avevano i requisiti di credito e in un periodo in cui i tassi d’interesse erano bassi. Con il ritorno a una politica monetaria più restrittiva, a partire dal 2004 il servizio del debito di quei mutui (interessi) era diventato insostenibile per molte famiglie. Da qui la crisi delle banche di credito ipotecarie che contagiò istituti, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, che teoricamente nulla avevano a che fare il mercato del credito statunitense.
Il contagio fu innescato dai prodotti finanziari strutturati acquistati a man bassa da banche europee. Grazie allo sviluppo delle cosiddette operazioni di cartolarizzazione, ossia la possibilità di trasferire a soggetti terzi i mutui dopo averli trasformati in un titolo di credito a rendimenti molto elevati e valutati da agenzie di rating con la tripla A. Questi «terzi» erano società veicolo che permettevano a chi li aveva emessi di recuperare buona parte del credito che altrimenti avrebbero riscosso solo alla scadenza – decennale o addirittura trentennale - dei mutui stessi. Invischiata nei titoli tossici - così vennero definiti – ci finì anche UBS che nell’ottobre del 2008 fu salvata grazie a un prestito della Confederazione e dall’intervento miliardario della Banca nazionale. All’inizio dell’anno la WestLB, una banca tedesca sconosciuta ai più, annunciò una perdita colossale per la sua mole: un miliardo di euro provocata proprio da titoli legati ai mutui subprime in deterioramento. Intervennero le casse di risparmio regionali tedesche – l’equivalente delle banche cantonali svizzere – e il Land del Nord-Reno-Westfalia per evitare danni ancora maggiori per 18 miliardi di euro (più di 27 miliardi di franchi al tasso di cambio dell’epoca). Un altro indizio, non colto, che il sistema finanziario internazionale stava scricchiolando paurosamente arrivò nella primavera del 2008 con il fallimento di fatto della storica banca d’affari newyorkese Bear Stearns che fu salvata dalla Fed di di New York e da JPMorgan Chase che l’acquisì a prezzi di saldo. Anche in questo caso le analogie con il caso Credit Suisse sono evidenti.
Nell’autunno del 2008 in Europa furono varati piani nazionali per salvare le banche in difficoltà: Belgio, Olanda, Portogallo, Irlanda, Francia, Germania, Grecia e Portogallo, per citare i più noti. In totale furono erogati 3.166 miliardi di euro. Molto di più fu messo a disposizione dalle autorità statunitensi per le loro banche, senza contare i costi sociali che la crisi – che nel frattempo da finanziaria era diventata economica - causò. Il prezzo per stabilizzare il sistema, almeno fino alla prossima crisi, fu quindi pagato dai contribuenti.
Lehman Brothers fu lasciata cadere e si capì subito che per evitare danni collaterali maggiori, le regole di mercato, in assenza di norme più severe in termini di liquidità e capitale, per i soggetti cosiddetti «too big to fail» tendono a non valere. Per loro esisterà sempre una garanzia implicita dello Stato. E non sempre chi dirige questi colossi è però disposto ad ammetterlo.