La partita del gigante Cina

di ALFONSO TUOR - La crisi cinese è stata solo un brutto temporale estivo oppure c'è qualcosa di più serio? In questi giorni di forti turbolenze dei mercati finanziari le opinioni sulle condizioni di salute della seconda economia del mondo sono spaziate dal giudizio di un temporaneo raffreddore a quello di un vero collasso dovuto all'eccesso di indebitamento pubblico e privato, allo scoppio di una bolla nel mercato azionario e in quello immobiliare e all'eccesso di capacità produttive. Il gigante asiatico è nel mezzo di una trasformazione del suo modello di sviluppo, ossia nel passaggio da un'economia basata su bassi salari, esportazioni e grandi volumi di investimento ad una che punta sulla domanda interna. Questo cambiamento è in corso da tempo. I salari sono saliti e questo aumento è stato ulteriormente ampliato dal continuo rafforzamento dello yuan che ha reso meno competitiva l'industria di esportazione. A conferma di questo processo vi è il continuo aumento dei consumi e anche la sempre più numerosa presenza di turisti provenienti dal Paese di mezzo, come può constatare qualsiasi cittadino europeo. È incontestabile che questo cambiamento di modello economico sta frenando sensibilmente il ritmo di crescita della Cina, che è sicuramente inferiore al 7% annunciato da Pechino. È anche incontestabile che è in corso lo scoppio di una grande bolla formatasi nella Borsa di Shanghai, ma bisogna ricordare che l'impatto sull'economia reale è relativamente scarso, dato che solo il 6% dei cinesi possiede azioni. Ma c'è dell'altro. In questi giorni hanno giustamente destato forte sorpresa gli errori e la goffaggine delle reazioni delle autorità cinesi che hanno dapprima tentato di arrestare la caduta della Borsa per poi lasciarla al suo destino e che nel bel mezzo della crisi borsistica hanno deciso di svalutare lo yuan creando panico sui mercati internazionali. E infatti l'apparente stato confusionale della leadership non è casuale, ma è il frutto di una lotta senza esclusione di colpi al vertice del Partito comunista cinese. In gioco è la posizione del numero uno cinese, Xi Jinpin, accusato di uno stile di gestione del potere accentratore che non rispetta le gerarchie del Partito e dello Stato, criticato per una politica troppo riformatrice del settore finanziario e soprattutto non più sopportato per la campagna contro la corruzione, che ha già portato all'arresto di oltre 200 mila dirigenti del PCC. A contrastare sotterraneamente il nuovo «imperatore» è il clan che fa capo all'ex segretario del Partito Jiang Zemin, che tre anni fa si era opposto a Xi Jinpin e voleva Bo Xilai alla guida del Paese. Queste personalità vengono oggi sostenute dall'enorme massa di dirigenti di partito che temono di essere a loro volta vittime della campagna contro la corruzione. A questa lotta di potere si deve ascrivere la ragione per cui le direttive di Pechino per il sostegno della Borsa di Shanghai siano state scarsamente seguite (un fatto inconsueto per il regime cinese), anche perché si vuole dimostrare che la nuova leadership non sa gestire l'economia e porta la Cina su una strada pericolosa. Lo scontro è talmente acuto che è probabile che già nelle prossime settimane se ne conosca l'esito che potrebbe essere un cambiamento al vertice, l'arresto degli oppositori o più probabilmente un compromesso, in cui verrebbero sacrificati il primo ministro Li Keqiang e il governatore della banca centrale.Fino a quel momento la Cina sarà fortemente instabile e non vi saranno chiari piani per rilanciarne la crescita. Questi problemi non devono però oscurare il fatto che la frenata dell'economia cinese rimette in discussione le prospettive di un'economia mondiale già di per sé molto fragile, come dimostrano il crollo dei prezzi delle materie prime e le turbolenze dei mercati finanziari.