La scuola resti un faro
La riapertura delle scuole ormai da tempo si è fatta multicolore nel gioioso tragitto da casa ai banchi e viceversa. Che le aule siano più vuote o con aumento di scolari non cambia la rituale preziosa e indispensabile iniziazione all’alfabetizzazione, alla formazione, alla cultura e all’iter della presenza sociale nella comunità. La scuola pubblica in Ticino supera i 200 anni e ha prosperato sottraendo in tempi lontani tanti ragazzi dal lavoro minorile. Non fu un inizio facile ma Stefano Franscini anche dal rango di consigliere federale riuscì a concretare i propri intenti e quelli convergenti, basati sui principi fondamentali del liberalismo che si stava affermando e per i quali molti politici con sensibilità sociale diversa si adoperavano. Le scuole, ieri come oggi, hanno suggestive foto tradizionali degli alunni il primo e l’ultimo giorno. La riapertura delle scuole dovrebbe sempre avere un brevissimo pro memoria rievocativo dei valori civici. Sfogliando la storia del primo Novecento e le sue foto si può constatare come la scuola avesse cambiato il corso dell’umanità, fra ragazzi in coda sui sentieri e sui marciapiedi e genitori che quando potevano li accompagnavano o li aspettavano. Tanti ragazzi, troppi, ovunque erano invece intenti ai lavori manuali, spesso anche pesanti. Come un po’ ovunque anche le bambine erano destinate al lavoro in adolescenza. Con teorie avanguardistiche la ticinese Maria Boschetti Alberti, rientrata da Montevideo, suggerì qualche nuovo principio che rese più amabile la scuola.
Oggi la diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione, che già dalle elementari accompagnano tanti ragazzi, ha mutato rapporti e apprendimento ma la sostanza dell’insegnamento resta prioritaria. E con tante mutazioni sociali e culturali molti annualmente si chiedono se la scuola quest’anno sarà migliore di quella dell’anno scorso. E chissà se quella dello scorso anno era migliore di quella precedente. Queste domande sono parafrasate, quindi rubate con qualche arbitrio al «Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere» di Giacomo Leopardi, che siccome era un pessimista secondo alcuni pedagogisti sarebbe stato meglio tenerne distanti i ragazzi. Invece con misura occorrerebbe rimetterlo qualche volta sui banchi di scuola, come un buon manuale linguistico e di costume; dovremmo far leggere ancora come un tempo ai ragazzi, culturalmente «dipendenti» dagli schermini luminosi, i moniti del poeta che invitava alla vita: «Godi, fanciullo mio: stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo’; ma la tua festa, ch’anco tardi a venir non ti sia grave.» Sarebbe utile, arricchente e formante invitare senza obbligo i ragazzi a scrivere una forma di diario con racconti e sensazioni, come fece De Amicis con il suo romanzo Cuore, che divenne il libro più letto e toccante, «scritto» da un ragazzino delle elementari e pieno di spunti educativi oltre che avventurosi. Per ingentilire le nuove leve dovrebbero far scrivere liberamente poesie come facevano nelle scuole di una volta, quando il cantante Fiorello non aveva ancora diffuso una canzone prendendo i celebri versi: «La nebbia agli irti colli piovigginando sale…». Tanti credevano che fosse una sua canzone e non un prodigio del Carducci. Leopardi non c’è più pericolo di incontrarlo.
Quasi nessuno si ricorda di lui. Anni fa in un Liceo parlavano di Nanni Moretti, non dei grandi Idilli o delle Operette morali ammonitrici. La colpa del degrado giovanile però non si può attribuire alla scuola, che funziona. Le famiglie si assumano i loro ridondanti torti. I frutti cadono sotto la pianta. La scuola di cinquanta anni or sono era migliore? Leggendo i discorsi dei politici di una volta o ascoltandone le registrazioni radiofoniche si ha l’impressione che avessero insegnamenti di rigore, almeno per la lingua italiana. Insegnamenti non solo formali. Oggi i ragazzi faticano anche in Italia, e non solo da noi, a mettere un apostrofo o la doppia zeta. Scrivono male, rispecchiano pensieri di spessore minimo, tirano all’essenziale e pronomi, aggettivi e forme verbali diventano irrilevanti. In libreria, che dovrebbe essere un luogo speciale, una signora con due ragazzi ha chiesto alla venditrice: «Quel libro qui, è adatto per i ragazzi minorenni?» Bella domanda; anche perché di ragazzi maggiorenni non ce ne sono e «quel» libro se è «qui» deve essere «questo». Ma non è grave. Un politico illustre ha detto «se sarei» e un’importante politica ha detto «così come pure». La buona lingua italiana è ormai come un geranio d’autunno?